Si disegnano scenari in Transatlantico, a volte pure fantasiosi, come una convergenza rossonera, fra Enrico Letta (tra l’altro milanista sfegatato) e Giorgia Meloni. Ma se c’è un punto su cui concordano praticamente tutti gli osservatori è che il governo Draghi sarebbe quasi certamente finito in crisi da un pezzo se non fosse scoppiato il conflitto in Ucraina.
L’esecutivo ha boccheggiato dopo la contesa per il Quirinale. La mancata elezione di Draghi ha segnato un momento di rallentamento dell’azione. Certo, dopo un anno tutti i governi tecnici (Ciampi, Dini, Monti) hanno esaurito la loro spinta propulsiva. Qualcuno pure prima, dopo 8-10 mesi. Il gabinetto guidato dall’ex numero uno di Bankitalia e Bce sembrava destinato a fare la stessa fine. Più per consunzione che per volontà dei partiti, visto che nessuno dei quattro maggiori azionisti è indispensabile. Vale per M5s, Lega, Pd e Forza Italia: la maggioranza è talmente ampia che se una di queste formazioni politiche decidesse di passare all’opposizione, i numeri ci sarebbero ancora.
Tre settimane dopo la conclusione della contesa per il Colle, Putin ha ordinato l’invasione dell’Ucraina. Per Draghi la stagnazione si è trasformata in totale assenza di alternative. Assurdo e pericoloso per l’economia immaginare una crisi di governo in una simile situazione di incertezza. Zero alternative possibili, ma anche zero passione nel sostenerlo.
Draghi ha tenuto la barra diritta, confermando il forte posizionamento euroatlantico dell’Italia, pienamente condiviso con Mattarella. I partiti, però, hanno subìto le scelte di Palazzo Chigi, con più o meno entusiasmo: Letta sul fronte atlantista, Conte e Salvini molto più dubbiosi. Sul piano interno il governo è sembrato rallentare la sua corsa, sino alla settimana scorsa, quando il premier si è imposto d’autorità su due questioni essenziali, il Ddl Concorrenza (che contiene la contestata norma sulla concessioni balneari), e la delega fiscale (di cui fa parte la revisione del catasto).
Da febbraio a oggi questa doppia intesa è forse il primo segnale di accelerazione. Per Draghi è fondamentale rispettare la tabella di marcia del Pnrr, con le sue riforme, 45 obiettivi da centrare entro giugno.
Oggi, lunedì, verrà varato il Ddl Concorrenza, poi le Camere andranno in stand by sino alle elezioni amministrative del 12 giugno. Poi l’insidia maggiore sarà rappresentata dalle pensioni, sempre con la Lega sulle barricate, in questo caso per impedire di tornare alla legge Fornero. Il rischio dell’incidente rimane sempre alto, ma a Palazzo Chigi si respira aria di moderato ottimismo.
Intanto i partiti sgomitano per farsi trovar pronti ai nastri di partenza della campagna elettorale per le elezioni politiche del prossimo anno. Il voto amministrativo del 12 giugno rischia di trasformarsi nell’ennesimo bagno di sangue per il centrodestra, all’apice della litigiosità. Si vota in quasi mille comuni, 26 capoluoghi, in 5 dei quali il centrodestra corre diviso (Catanzaro, Parma, Messina, Verona e Viterbo). Solo vittorie a Genova e Palermo potrebbero rasserenare gli animi rispetto a una sconfitta già metabolizzata. L’attenzione è già sulle regionali siciliane di ottobre, per capire se lo scontro per la leadership fra Meloni e Salvini sarà in grado di trovare una composizione non autolesionistica.
Se il centrosinistra guarda con maggior fiducia al passaggio elettorale è per la totale inconsistenza dell’M5s sul territorio: i grillini in molte realtà hanno rinunciato a presentare il loro simbolo, persino in quella Parma che 10 anni fa fu il primo capoluogo a cadere in mano ai pentastellati. I nodi di un’alleanza giallorossa tutta da costruire sono rinviati più avanti.
In ogni caso, il governo non sembra rischiare nulla. Ci sarà da discutere in continuazione, ad esempio sull’invio di armi all’Ucraina, ma anche su fronti improvvidi come il Ddl Zan che Letta spinge per riprendere in mano. La linea sembra comunque tracciata, quella di Draghi. Si va avanti, anche se con sempre minore entusiasmo, e se qualcuno dovesse decidere di staccare la spina (Salvini? Conte?), ne pagherebbe il prezzo davanti alla pubblica opinione. Si va avanti per assenza di alternative. Unico dilemma da sciogliere è se si voterà a inizio anno prossimo, oppure stiracchiando le scadenze istituzionali al massimo consentito, alla fine di maggio. Sarà il tema di scontro dei prossimi mesi.
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