Sarebbe logicamente conveniente per Salvini staccare la spina al Governo e andare poi al voto. Ma il Capitano sa che non gli conviene

Ma perché Matteo Salvini non stacca la spina al Governo, perché non ha ancora scelto di tornare alla cassa elettorale per riscuotere il vantaggio incredibile che è riuscito ad accumulare in un anno sull’alleato? Dal marzo 2018 a oggi la Lega che “pesava” la metà dei Cinquestelle ha saputo raddoppiare i propri consensi e dimezzare quelli del cosiddetto alleato: ma questo nelle Camere non si vede, lì comanda ancora il Movimento.



Perché Salvini non si è ancora deciso a trasferire gli attuali rapporti di forza nel Paese, sanciti dal voto europeo, al Parlamento nazionale? Cosa si aspetta dal prolungare questo stillicidio di polemiche e di scelte politiche contraddittorie e inconcludenti?

Alla fine di una settimana sconcertante di insulti incrociati tra leghisti e grillini, la pace apparente del venerdì appare surreale e queste domande sono ineludibili.



Ma la politica è complicata, quella italiana particolarmente. Il nostro è pur sempre un Paese – e un’opinione pubblica – poliframmentato, di correnti e correntine. È pur sempre un Paese in cui le scelte-chiave degli ultimi venticinque anni – un quarto di secolo! – sono state orientate dall’agenda delle Procure, in totale decorrelazione dal merito delle connesse vicende giudiziarie.

È un Paese in cui l’intelligenza artificiale di quei supercomputer capaci di battere chiunque nel gioco degli scacchi verrebbe messe a dura prova, perché nel prevedere le mosse dell’avversario è necessario includere troppe variabili, troppi imprevisti, troppi fenomeni illogici. E dunque – sostengono alcuni tra i “salvinologi” più importanti – non è che al Capitano sfugga l’evidenza. Sa perfettamente che sull’autonomia, sulla riforma della giustizia, sulla flat tax la distanza di vedute con i Cinquestelle è incolmabile. La sua sorpresa delusione nel vedere i grillini votare la von der Leyen è stata sincera: nel senso che neanche lui, pur frequentandoli, riesce a capirne le dinamiche. Come pure non può sapere fino a che punto Giuseppe Conte, il premier, sia ancora un uomo di mediazione anche se di fedeltà grillina o non stia giocando un ruolo in prima persona, da futuro capo di un Governo tecnico e non più da semplice segretario-notaio di un Governo con due vicepremier e senza premier, com’è stato fino a ieri.



Quel che Salvini sa è di essere lui, oggi, di fatto, il protagonista della vita politica del Paese e sa che quel mix di comunicazione, di promesse e anche di qualche embrionale realizzazione gli ha permesso di massimizzare i consensi.

Sa anche che non si dorme sugli allori, perché come le onde del mare i consensi vanno e vengono; ma sa fare i conti e si chiede se, accettando oggi la sfida delle urne e assumendosene in toto la responsabilità, avrebbe partita vinta o sarebbe “fermato sul bagnasciuga”, per citare l’erronea espressione mussoliniana, riferita agli americani. Già: perché Salvini sa di non avere alleati forti. La Forza Italia del Cavaliere è un miscuglio di leadericchi, dove Mara Carfagna lo convince, Giovanni Toti già molto meno – e comunque i sondaggi lo danno al 2% – le anime post-democristiane sono molte e l’affidabilità molto relativa.

Poi c’è la Meloni, più affidabile, ma fatalmente concorrente sulle frange più a destra dell’elettorato comune. Infine, c’è il voto del Sud, incredibilmente attratto dalla Lega quindici mesi fa, ma oggi, anche a seguito delle polemiche sull’autonomia, forse meno convinto di allora ad affidarsi a un partito che insiste a lasciare nell’articolo 1 dell’ultimo regolamento approvato dal consiglio federale del 13 luglio 2015, e consultabile sul sito ufficiale, come propria denominazione “Lega Nord per l’indipendenza della Padania”.

Accanto a tutto ciò, milita poi un fattore per così dire affettivo, o almeno umano: il buon rapporto interpersonale tra Salvini e Di Maio. Si stanno simpatici e continuano, sotto sotto, a fidarsi l’uno dell’altro. In particolare Salvini considera Di Maio il grillino “meno peggio” di tutti, quello con cui si riesce a ragionare e, salvo interferenze altrui, trovare sempre la giusta mediazione, com’è accaduto in fondo su quota 100 e reddito di cittadinanza. Se dalle urne nazionali uscissero confermati i rapporti di forza europei ma smentita la leadership grillina, un Governo di puro centrodestra rischierebbe di non avere la necessaria forza numerica alle Camere, e un bis della pur bislacca alleanza Penta-leghista aa ruoli invertiti sarebbe impossibile.

Certo, le scadenze autunnali incombono: non ci sono i soldi per soddisfare tutte le promesse date dai due partiti di governo. La flat tax sembra sempre più ridimensionata, il salario minimo è ultracontestato, dell’autonomia e dei vari tesoretti non si parla più e la pace dello spread va ascritta interamente al ministro Tria e alle garanzie che ha prestato all’Europa sull’opposto di quel che il totale delle promesse otterrebbe se attuate: cioè sulla tenuta dei saldi.

Dunque il quadro è nebbioso. Ma lo è su tutto, sulla continuità di questa relazione politica ormai innaturale, però anche sull’esito di un voto anticipato. Ecco, semplicemente, perché Salvini per ora non lo impone. E poi, e infine: la parola “impone” è impropria. Perché di fronte a una conclamata apertura di crisi parlamentare, l’ultima parola sarebbe del Colle: il quale la prenderebbe con la consueta indipendenza, ma alla luce di tutti gli elementi da valutare, e non solo della volontà dei leader. E tra questi elementi, in primis, la stabilità nazionale. Che non viene decisa né da Salvini, né da Di Maio, né da Mattarella, ma dallo spread.

La sovranità – che piaccia o meno – è già molto molto limitata.