Il caso del disabile bullizzato ad Halloween richiama alla responsabilità educativa verso gli adolescenti. A partire da famiglia, scuola e territorio

Ci sono fatti che è difficile descrivere nella loro intrinseca crudeltà e nella loro mancanza di senso e di significato. Il caso in questione è accaduto la notte di Halloween. Anche in Italia da qualche anno si è diffuso il desiderio di fare scherzi in questa notte, muovendosi secondo una dinamica ormai divenuta consuetudine.



Un divertimento innocente e senza rischi, deve aver pensato il giovane disabile che ha rinunciato ad andare dal nonno per stare con i nuovi amici, due ragazzi e una ragazza. Ma le cose non sono andate affatto così. I presunti amici non avevano nessuna intenzione di comportarsi da amici. Nonostante la loro giovane età, si sono rivelati sofisticati persecutori, che lo hanno maltrattato e gli hanno inflitto una violenza fisica e morale difficile da dimenticare.



Hanno abusato di lui e della sua fragilità, cosa tanto più difficile da comprendere dal momento che erano tutti pressoché coetanei. Lo hanno adescato con l’evidente premeditazione di chi pensava di divertirsi alle sue spalle, approfittando della sua evidente disabilità. E lui non ha saputo difendersi; non ha potuto sottrarsi alla cattiveria del branco, che ha perso il controllo della situazione, dimenticando le regole più elementari della convivenza.

Gli hanno sottratto il cellulare, lo hanno chiuso in bagno e lo hanno sottoposto a sevizie, gli hanno rasato capelli e sopracciglia, modificando la percezione del suo volto, rendendolo irriconoscibile. Alla fine, lo hanno obbligato a gettarsi nel fiume, forse la Dora, forse il Po, di notte, al buio e con il freddo immaginabili; il tutto prima di scaricarlo accanto alla stazione e solo allora gli hanno restituito il cellulare.



Non volevano far nulla di male… solo divertirsi un po’, devono aver pensato, e questo è il marchio di una superficialità che sfata molti miti sul senso di amicizia tra i giovani. Perché anche tra di loro questi adolescenti sono sembrati più complici che amici; pronti a deresponsabilizzarsi reciprocamente, per giustificare il loro pessimo comportamento. È stata la madre del ragazzo a denunciare, il giorno dopo, l’avvenimento sui social di un gruppo cittadino. La mamma racconta: “Io sapevo che era a dormire dal nonno e che non è mai arrivato l’abbiamo scoperto il mattino. Io ringrazio Dio che mio figlio è vivo, voglio solo giustizia” ha concluso. Ma “Quando l’ho visto è stato uno choc”. E ripete: “Voglio solo giustizia”.

C’è un senso in tutto ciò?

È la domanda che tutti ci siamo posti leggendo la notizia sulla stampa, perché questo fatto tocca vari piani, individuale, sociale, istituzionale, davanti ai quali è difficile sottrarsi al bisogno di trovare almeno qualche risposta. L’adolescente ferito, oltre alla fragilità legata alla sua abituale disabilità, ha sperimentato la privazione della libertà, accompagnata da minacce, umiliazioni, alcune delle quali resteranno molto a lungo impresse sul suo stesso volto. È una ferita che rischia di lasciare segni profondi, non solo sul piano fisico ma anche psicologico. D’altra parte, l’episodio evidenzia come il bullismo, quando assume la forma di sevizia e tortura, non è mai una “ragazzata”, ma un atto di prepotenza che trasforma la vittima in oggetto di potere.

Il fatto che siano coetanei minorenni non attenua la gravità, anzi la rende più inquietante perché riguarda la nostra prossimità quotidiana, la scuola, gli spazi di aggregazione giovanile. Questo caso richiama alla responsabilità collettiva: famiglie, scuole, istituzioni sociali e sanitarie.

Donna aggredita a Milano (Foto: Tg5)

C’erano dei segnali che avrebbero dovuto mettere in allarme le famiglie dei tre aggressori?  Quando la disabilità entra in gioco c’è sempre un maggior bisogno di protezione, di sostegno, e di inclusione, e il venir meno di questi fattori rende la vittima ancora più esposta.

Ora che la notizia è esplosa e la denuncia è stata fatta presso la Compagnia dei Carabinieri di Moncalieri, le forze dell’ordine stanno verificando i fatti e le loro conseguenze. È necessario che vi sia piena trasparenza, che i diritti della vittima siano protetti nella loro riservatezza, ma anche ai responsabili va data una risposta adeguata.

Il sistema però non può limitarsi alla pena: è necessario un percorso educativo e di recupero, oltre che di sostegno alla vittima. Una psicologa interpellata ha espresso il suo giudizio in modo lapidario: “Deresponsabilizzazione derivante dall’agire in gruppo, incapacità di riconoscere i sentimenti altrui, vuoto e noia all’origine del gesto”. Per dare un senso a tutto ciò occorre proteggere la vittima assicurandosi che sia seguita da specialisti, psicologi, neuropsichiatri, che sia garantita la sua sicurezza e che gli venga offerto un ambiente accogliente. Ma servono anche indagini rapide e trasparenti, per chiarire le responsabilità, evitando che il fatto venga minimizzato o ridotto a “episodio tra ragazzi”.

Servono politiche scolastiche e territoriali rafforzate, puntando ad una formazione specifica sui temi della disabilità, del rispetto dell’altro, del contrasto al bullismo; con protocolli chiari aiutare professori e maestri ad intervenire. Ma serve anche un maggiore coinvolgimento della comunità: c’è bisogno di sensibilizzazione, con iniziative concrete, anche locali che aiutino a creare una vera e propria cultura dell’inclusione, con segnali forti contro la passività o l’omertà.

E infine servono media e giornalismo più responsabili: non basta dare la notizia perché si è scandalizzati, occorre suscitare riflessione, proporre soluzioni, dare voce alle vittime e non solo agli aggressori.

Niente vendetta, solo giustizia

In conclusione, quanto è accaduto nella notte di Halloween a Torino non è solo un episodio di cronaca da registrare e dimenticare. È un campanello d’allarme su cosa possano diventare dei ragazzi, minorenni, se possono concepire e attuare azioni di tale crudeltà. Se una persona con disabilità può essere “giocattolo” del branco, serve un cambiamento culturale profondo: perché la disabilità non diventi pretesto di derisione; perché il rispetto della dignità umana sia davvero fondamento delle nostre relazioni; perché nessuno resti solo. La fragilità deve risvegliare la nostra empatia e deve diventare opportunità di servizio e di collaborazione.

I giovani debbono prendere coscienza della loro forza e della loro energia, del loro spirito di iniziativa e del desiderio di operare in gruppo, per proporsi uno stile di vita ispirato alla magnanimità e alla misericordia, evitando gli sfoggi di violenza e aggressività, che non sono certamente segnali di maturità. Servono qualità diverse come la collaborazione e la solidarietà, la gentilezza e la lealtà. Ancora una volta una grande lezione di saggezza è venuta dalla mamma di questo ragazzo: “Ringrazio Dio che mio figlio è vivo, voglio solo giustizia” ha scritto, aggiungendo: “Non voglio vendette, né a livello individuale, né tanto meno a livello di gruppo”. Parole che risuonano oltre il singolo caso: richiamano tutti noi a non girare lo sguardo dall’altra parte.

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