Non è facile definire il contributo che monsignor Giuseppe De Bernardis, morto lo scorso 2 ottobre e da tutti chiamato don Pino, ha dato alla Chiesa. Non lo è perché ci si riferisce ad un sacerdote che – sulla carta – ha sempre agito in un’area circoscritta del Paese: don Pino nasce a Rapallo nel 1933, entra nel Seminario di Chiavari durante la Seconda guerra mondiale, e diventa prete nel 1958. Da allora il Tigullio sarà sempre la sua casa: prima Portofino, poi Lavagna, poi Chiavari, segue la non breve parentesi nell’entroterra ligure e poi ancora – definitivamente – Chiavari.
Eppure, la vicenda di don Pino intreccia alcuni nodi fondamentali della cattolicità del secondo Novecento. Anzitutto il rapporto con la modernità: De Bernardis si è ritrovato ad operare nella Portofino della fine degli anni Cinquanta e dell’inizio degli anni Sessanta, una Portofino che abbandonava lentamente la sua dimensione di borgo di pescatori per diventare meta del turismo internazionale, ospitando star di ogni tipo e aprendo le porte ad una stagione in cui la massificazione e il consumismo finiranno per divorare l’intero tessuto cattolico già fortemente provato dall’impostazione moralistica della Chiesa nei decenni precedenti.
Don Pino rispose a tutto questo con un’iniziativa disarmante: incontrando le persone, sprecando del tempo con loro. È come se questo sacerdote ligure ci dicesse che tutto è perduto quando si fanno progetti, ma niente va perduto quando si sta di fronte alla realtà di chi abbiamo davanti. Don Pino non si preoccupò di analizzare la situazione, egli si pose e, ponendosi, lasciò un segno.
Il secondo nodo con cui il sacerdote di Rapallo si confrontò fu l’irrompere dei movimenti sulla scena pre e post conciliare: l’incontro con don Giussani portò quest’uomo minuto, e inaspettatamente timido, a identificarsi con Giovetù Studentesca prima e con Comunione e Liberazione poi. La sua forza divenne sorgente di aggregazione non solo nel Tigullio, ma in tutta la Liguria, in diversi luoghi dell’Emilia, del Veneto e della stessa Lombardia.
Questo portò don Pino sotto la lente di ingrandimento dei suoi vescovi che, dapprima, restarono attoniti di fronte al fenomeno che si stava componendo, poi cercarono di normalizzarlo, affidando al movimento di GS una parrocchia (caso quasi unico in Italia), e poi lo accettarono. Per De Bernardis furono anni dolorosi che produssero in lui una profonda riflessione sul ruolo delle parrocchie e sul loro rapporto con la forma “movimento”, alternando tratti in cui considerava le parrocchie al capolinea e momenti in cui si fece largo in lui una sincera rivalorizzazione.
Il punto è che per don Pino qualunque forma, anche quella di un movimento, o era espressione di una vita oppure era una struttura destinata a mortificare l’umano e a far perdere di mordente all’annuncio di Cristo. Nel suo pensiero erano chiare tre dimensioni che in un certo senso superano la dialettica parrocchia-movimento: la preferenza da cui il cristianesimo sorge, l’obbedienza in cui l’incontro fatto diventa storia personale, e la tensione tra autorità e comunità che, seguendo Giussani, don Pino sempre definiva “compagnia guidata al destino”.
Il terzo nodo con cui dovette confrontarsi il prete chiavarese fu quello del Sessantotto: proprio casa Marchesani, la sede che il movimento ottenne nella cittadina ligure, fu geograficamente vicinissima ai luoghi dove si teorizzava il superamento del confronto parlamentare per l’affermarsi della lotta violenta. In tanti subirono il fascino del marxismo e del terrorismo, Gioventù Studentesca attraversò una vera e propria crisi con fuoriuscite importanti. Don Pino cercò sempre anzitutto di comprendere che cosa accadeva. Questo suo tentativo di attenzione a quanto andava maturando tra molti dei “suoi” ragazzi gli valse il soprannome di “prete rosso”. Eppure, niente fu più distante dal suo temperamento, dalla sua sensibilità, dal suo stesso approccio alla politica. E infatti, vista l’impossibilità di un confronto concreto, don Pino diede un giudizio netto, aiutato dal nome stesso che stava assumendo il movimento: la vera liberazione dell’uomo era la comunione.
De Bernardis è stato un uomo di battaglia, polarizzante, capace di aprire una breccia nelle mura più solide. La sua presenza catturò l’attenzione di uomini e donne di cultura, vescovi, cardinali, non credenti. La verità, in lui, non era mai staccata dal dialogo e l’amicizia era sempre una virtù da coltivare per vivere seriamente e intensamente la vita. Fu accusato di cristocentrismo esasperato, ma in realtà il suo era un approccio che privilegiava la pedagogia alla teologia sistematica, optando con forza per un’educazione all’amicizia con Gesù che apriva, poi, alla dimensione trinitaria.
Fu accusato anche di integralismo, ma chi lo accostava capiva che la sua era semplicemente passione autentica per quello che aveva incontrato, passione che non gli impediva di accogliere chiunque. C’era un don Pino pubblico, battagliero e a volte capopopolo, e un don Pino privato che era capace di una tenerezza, di una gentilezza e di una vicinanza impressionanti. Come ha ricordato il vescovo di Pavia, monsignor Sanguineti – figlio spirituale carissimo di don Pino – durante l’omelia funebre, De Bernardis si è speso per i suoi tanti amici senza sosta, sacrificando giorni e notti, ore di sonno e di libertà, per stare vicino a chi si trovava nel bisogno. La sua scomparsa non cancella l’impressione che il suo desiderio di vita ha suscitato in tutti coloro che lo hanno incontrato. Il suo sguardo e la sua paternità sono il suo vero testamento. Un’eredità che è per tutti e che, come spesso accade nella Chiesa, ha appena iniziato a mostrare la sua preziosa fecondità.
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