Donna Haraway, Leone d’oro alla Biennale, teorizza cyborg e fine delle nascite contro fascismo e crisi climatica. Polemiche sul futuro post-umano
Con l’assegnazione del Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia, Donna Haraway – 84enne filosofa femminista e teorica del cyborg – ha riaperto il controverso dibattito sul suo pensiero, da molti definito “un ottovolante del buonsenso”; autrice del saggio Manifesto Cyborg (1985) Donna Haraway è celebre per aver sovvertito i dualismi tradizionali – uomo/donna, natura/cultura – proponendo un futuro post-umano governato da ibridi tecnologici.
Proprio durante la cerimonia ha lanciato un appello accorato contro quella che ha descritto come una minaccia crescente di “fascismo globale” esortando il pubblico internazionale a ripensare radicalmente la natalità in favore di relazioni affettive fluide e non biologiche in quanto la soluzione – secondo lei – sarebbe “fare legami, non bambini”.
In un momento che ha fatto discutere, Haraway ha indicato nella popolazione globale – ormai prossima ai 10 miliardi – un pericolo per la sopravvivenza terrestre, suggerendo che la speranza non risieda più nell’uomo ma nel cyborg che vede come una creatura ibrida, liberata dai limiti del genere e della biologia, capace di affrontare la crisi climatica e smascherare le logiche di dominio.
Il suo riferimento al chthulucene – un’era geologica immaginaria in cui umani, non-umani e macchine convivono senza gerarchie – ha suscitato reazioni contrastanti e se per i sostenitori è un’alternativa visionaria all’antropocene, per i detrattori è un esempio di fanta-filosofia che colpisce le basi del buon senso.
Donna Haraway tra utopia cyborg e critiche al presente: “Urlo contro razzismo e misoginia, ma la soluzione è nel non-procreare”
L’intervento veneziano di Donna Haraway ha mescolato ambientalismo radicale, femminismo, critica sociale e provocazione simbolica – come quando ha dichiarato che il leone della Biennale “simboleggia la fluidità” e che sarebbe pronto ad affrontare tutti i fascismi del presente – molti dei quali, ha detto, si annidano nei discorsi apparentemente democratici; la filosofa – docente emerita alla UC Santa Cruz – insiste sull’urgenza di superare l’antropocene attraverso una drastica riduzione demografica e l’adozione di tecnologie considerate emancipative e non si tratta solo di ecologia, ma di riscrivere le forme stesse della convivenza sostituendo le parentele tradizionali con reti affettive libere da vincoli genetici e culturali.
Ma le sue tesi – tra cui l’equiparazione tra familismo e autoritarismo – continuano a dividere l’opinione pubblica: secondo alcuni osservatori, il suo discorso sembrerebbe una performance dadaista o una satira postmoderna se non fosse presentato con assoluta serietà accademica e le critiche non si limitano al contenuto, ma toccano anche l’uso del suo stesso nome – Donna – visto come paradossale per chi sostiene di voler superare ogni dualismo di genere.
Un’ironia che – secondo i suoi detrattori – mostra chiaramente le contraddizioni profonde del suo pensiero ma comunque – al netto delle perplessità – il cyborg harawayano rimane una metafora politica controversa e per certi versi delirante, una figura di resistenza che attraversa confini – tra generi, specie, categorie – e che propone una ridefinizione surreale del soggetto e della collettività.