12 maggio Festa della Mamma. Non solo mamme super impegnate, mamme stressate che cercano di conciliare lavoro e famiglia, ma anche mamme che vivono situazioni ben più pesanti. Esistono detenute che crescono i propri figli dietro le sbarre, in una realtà, quella italiana, in cui la situazione carceraria è “maschiocentrica”, e il 95% della popolazioni delle carceri è costituita da uomini, e alle donne viene dedicata meno attenzione.
Il 90% delle donne detenute però è madre di uno o più figli e “Mamma in prigione” è il titolo del libro-inchiesta di Cristina Scanu, giornalista Rai. Sono 2847 donne divise in cinque carceri, tra Pozzuoli, Trani, Rebibbia, Empoli e la Giudecca a Venezia, istituti, come tutti in Italia, progettati per gli uomini e in cui vige da sempre un codice maschile, che rende ancor più difficile il percorso riabilitativo per le donne. «Il carcere è parte della nostra società: se ne facciamo una fabbrica di dannati – diceva don Luigi Melesi, ex cappellano di San Vittore – saremo noi un giorno a pagarne il prezzo».
Attualmente in Italia sono circa 60 i bambini che vivono in cella con le madri, e l’Italia detiene il triste record di pronunciamenti della Corte Europea per condizioni di detenzione disumane, un problema di cui il governo non si occupa. Le madri oltre ai problemi della detenzione devono affrontare il disagio psichico, l’allattamento, l’educazione del piccolo in strutture non attrezzate.
Inoltre, secondo l’ordinamento penitenziario del 1975, i figli potevano stare con le madri fino al terzo anno di età, ordinamento poi modificato nel 2011 con l’estensione fino ai sei anni del bambino, a patto che madre e figlio si trovino in istituti di custodia attenuata, e per il momento esiste solo uno, a Milano, l’Icam.
Il sovraffollamento e le scarse condizioni igieniche poi, fanno di queste carceri un luogo in cui ci si ammala, specie se si pensa che il 20% delle detenute sono tossicodipendenti e il virus dell’HIV porta con sè altre patologie, la più frequente è quella dell’epatite C.
Non sorprende che molte detenute si ammalino di depressione; un male più maschile che femminile, e che sfocia spesso in autolesionismo e in tentativi di suicidio.
Sarebbero fondamentali per alleviare le loro sofferenze, incontri con psicologi, medici, assistenti sociali, preti in alcuni casi, ma scarseggiano le risorse e la strada verso il recupero e la reintegrazione è troppo lunga: la maggior parte delle detenute una volta fuori trovano un mondo ostile e un futuro da disoccupate.
Senza prospettive e con i figli lontani in qualche istituto, per molte è facile essere recidive e tornare in carcere.