La Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza ha rappresentato nella sua indagine una situazione di povertà culturale dei nostri giovani drammaticamente reale che non ci ha stupiti, posto che della povertà educativa da tempo segnaliamo il declino inarrestabile nel nostro Paese. Tra il consumo di droghe e alcool l’età della ricerca dell’oblio si sta progressivamente abbassando ai margini dello sviluppo preadolescenziale intorno ai 9 anni e dal 2021 il picco si è alzato al 40% colpendo le città e le periferie. In aree degradate, costretti a fare da manovalanza dei mafiosi, le figlie e i figli delle famiglie più povere e disagiate sono preda della malavita: esclusi dalla formazione e attirati dal vuoto del nulla senza potersi difendere o agire nella violenza succubi di cyber bullismo. Una realtà da cui un Paese normale non può sfuggire e pensare di estendere il cd modello Caivano lungo tutto lo stivale, perché non c’è area territoriale immune.
Dunque che fare? Muoversi subito sul lungo periodo investendo prima di tutto in seri educatori e bravi maestri dalle materne alle superiori. Significa formare insegnanti genitori, catechisti, allenatori, e quello che più ci chiama in causa anche oggi, nelle nostre responsabilità civili, è dare dignità politica alle scelte personali di rifiuto di connivenza con l’ingiustizia come esercizio di pubblica civiltà e responsabilità per i nostri figli e nipoti.
La fame di pane e sapere è scandalo, ingiustizia e cristianamente e laicamente peccato. Le esperienze educative di qualità in contesti formali e informali devono diventare la nostra priorità perché la povertà educativa è, d’altra parte, un fenomeno più ampio della povertà economica. Spesso coinvolge minori che non sono in condizione di povertà materiale, ma che sono invece limitati nella libertà di accesso e di scelta in differenti ambiti di esperienza culturale. La povertà educativa non è quindi solo povertà scolastica, e impedisce a bambini, bambine e adolescenti di far fiorire le aspirazioni e i talenti, anche oltre la scuola.
Spesso dietro un bambino che legge poco o non gode di occasioni di socializzazione con i propri coetanei ci sono genitori che non ritengono significative ed educative esperienze di questo tipo. Per tali ragioni il contrasto alla povertà educativa diventa uno sforzo in più direzioni e si esprime in modo differente attraverso una pluralità di contesti in un processo continuo e diffuso che contraddistingue l’apprendimento per l’intera vita quotidiana: dalla famiglia, ai luoghi di lavoro e di apprendimento; dalle relazioni amicali al tempo libero.
Investire in educazione di qualità per la prima infanzia, per esempio, genera benefici sociali ed economici per la società; permette di far crescere adulti più autonomi e capaci di impegnarsi nella vita in modo attivo. Investire nell’educazione di un bambino è un vantaggio economico per la società in termini di risparmi sul welfare: se calcoliamo un valore unitario, ad esempio, di un euro, investito in un bambino all’età di zero anni in un programma di qualità per la prima infanzia, quell’euro sarà ripagato a un tasso del 13% all’anno per tutta la vita del bambino, un tasso di rendimento molto elevato.
Leaving no one behind, non lasciare nessuno indietro, è il motto dell’Agenda Onu 2030 e richiama un approccio integrato al problema della povertà educativa affermando che ciascuno può essere agente concreto di cambiamento. Questo è possibile se costruiamo una nuova idea di sviluppo economico sociale e culturale che veda un continuo scambio tra famiglia, territorio e agenzie educative e formative attraverso un vero processo di reciprocazione. Spesso la scuola fa fatica nel coinvolgere in modo continuativo le famiglie appartenenti ai ceti sociali più svantaggiati. Bisogna promuovere l’allargamento di responsabilità pedagogica all’intera comunità territoriale, nei confronti di quei soggetti che vi appartengono e a vario titolo svolgono compiti educativi. Questo si trasforma nella promozione di un modello di learnfare sociale fondato sul diritto all’apprendimento.
Per tali ragioni la scuola come l’università devono diventare non solo luogo di insegnamento e ricerca, ma, in prospettiva pedagogica, assumere la promozione di opportunità sociali e culturali inclusive per il proprio territorio attraverso il dialogo con giovani e famiglie. Potenziare le strutture educative significa anche valorizzare l’occupabilità delle donne che sono ancora oggi quelle che pagano in termini di disoccupazione e che non riescono a entrare e rimanere nel mercato del lavoro. Per questo è il momento di fare scelte politiche coraggiose che guardino alla scuola come all’università con investimenti fondamentali per la ripresa civile e sociale, per invertire la rotta della depressione sociale e dell’impoverimento relazionale. Facciamolo e subito.
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