Accordi di sistema fra Stato, imprese e lavoratori possono aiutare l'Italia ad affrontare l'impatto dei dazi sull'economia
L’annunciata dichiarazione di nuova politica di potenza economica degli Usa è stata fatta. Donald Trump ha fissato dazi per tutti i Paesi che commerciano con gli Stati Uniti. Il calcolo appare un po’ farlocco. Secondo molti professori di economia le spiegazioni teoriche date non raggiungerebbero il voto di sufficienza in un esame universitario. Ma gli effetti reali ci saranno indipendentemente dal valore teorico e dalla serietà dell’elaborazione.
Per quanto riguarda l’Europa, i dazi reciproci sono fissati al 20%. L’impatto sarà sicuramente significativo per molte produzioni provenienti dal nostro continente. Possiamo guardare al bicchiere mezzo pieno. Gli Usa rappresentano ormai solo il 15% del commercio mondiale. C’è quindi possibilità di indirizzarci verso altri mondi. Se poi ci concentriamo sui prodotti che caratterizzano il Made in Italy e il food sono mercati per buona parte anelastici al prezzo. Ma cercando solo le scuse per vedere lati meno negativi si rischia di perdere di vista il dato generale.
La scelta fatta dalla presidenza Usa scassa il fragile equilibrio su cui reggeva il sistema degli scambi internazionali. Gli effetti della globalizzazione hanno prodotto una crescita di nuove economie. Le regole su cui ci si è basati in questi anni mostrano la corda. Con la rottura unilaterale promossa da uno dei principali player potremmo avere in campo economico un ritorno agli scontri fra grandi potenze, premessa di ulteriori tensioni verso mercati che tendono all’autarchia.
La ragione di cercare strade diverse dalla semplice scelta dell’occhio per occhio non viene dal cercare di tenere buoni rapporti con chi ha buttato per aria le regole o dalla convinzione che solo nuove regole che permettano la crescita degli scambi internazionali si sposino con la difesa di una politica di crescita che aumenti la ricchezza a disposizione di tutti i popoli.
L’Europa ha basato la sua ricerca unitaria sulla base di regole economiche che favorissero la crescita dell’economia di tutti i Paesi aderenti e ha basato su questa capacità di rispondere ai bisogni di tutti in modo unitario la costruzione di relazioni pacifiche. Sta in questa origine la responsabilità oggi di esercitare sullo scacchiere internazionale un ruolo importante affrontando anche le lacune che aveva per ora trascurato.
Deve porsi l’obiettivo di esercitare fino in fondo il ruolo di potenza mondiale. Certo anche nel settore della difesa per poter essere garante di pace. Ma soprattutto affrontando un nodo economico di fondo. L’economia europea è proiettata sull’esportazione anche per i limiti posti nel mercato interno. Oggi abbiamo bisogno che crescano grandi imprese europee superando i limiti posti alla crescita dei mercati fra Paesi europei.
Fissata questa svolta, a più riprese richiamata nei documenti elaborati da Draghi, la risposta alla chiusura del commercio internazionale deve partire da due capisaldi: essere paladini con il resto del mondo di nuovi trattati che favoriscano la crescita del commercio internazionale, in quanto il ritorno agli scontri commerciali porterebbe alla crescita della povertà diffusa; rispondere, quindi, alla scelta dei dazi con un insieme di politiche monetarie, fiscali e, in ultimo, anche con “contro-dazi”. La risposta alle chiusure deve essere di nuove aperture per più sviluppo per tutti e non una rincorsa fra nazionalismi.
Se anche si riuscisse a organizzare un risposta europea comune a tutti gli Stati e seguendo un tracciato come delineato dagli studi europei elaborati per l’occasione avremo in ogni caso un impatto sui settori produttivi. L’effetto dei dazi porrà ai consumatori americani il problema di scegliere fra prodotti che avranno i prezzi influenzati dalle scelte del loro Governo (e non sempre il prezzo minore sarà quello dei prodotti Made in Usa), ma cambierà anche i mercati di approvvigionamento. Avremo pertanto per le imprese del nostro Paese spostamenti di domanda fra singoli settori e prodotti.
Abbiamo bisogno di qualche tempo per capire dove saremo più colpiti e se avremo di fronte settori con cadute della domanda significativa; quali si troveranno spiazzati da nuova concorrenza e dovranno ristrutturarsi pesantemente o solo cambiare strategia commerciale.
Il punto essenziale è cercare già oggi di immaginare come affrontare l’impatto sociale che il sommovimento messo in moto dalla scelta dei dazi avrà sul nostro mondo del lavoro. Stiamo superando ogni record nel tasso di occupazione e con una crescita del lavoro con contratti più stabili. Nello stesso tempo cresce il lavoro povero. Povero di qualità e di riconoscimento economico.
Una crisi trasversale ai settori economici come quella indotta da pesanti cambiamenti nella domanda internazionale può contribuire ad accentuare gli squilibri del nostro mercato del lavoro e aprire forti tensioni in alcuni settori produttivi.
Unica voce finora sentita finora per porre l’attenzione sugli aspetti lavorativi è stata quella della Segretaria generale della Cisl Daniela Fumarola. In un periodo di grandi cambiamenti si può pensare al ruolo del sindacato come un ritorno alle tutele del lavoro del secolo scorso e frutto di uno scontro duro fra interessi contrapposti. Il referendum sul Jobs act ne è l’esempio. C’è però una via diversa. Il lavoro è oggi cresciuto anche per la capacità di misurarsi con le sfide dello sviluppo. La richiesta di avere norme per la partecipazione alle imprese va in questo senso.
Di fronte alle turbolenze innescate dalla vicenda internazionale c’è bisogno di fare accordi di sistema fra Stato, imprese e lavoratori per dotarsi di tutti gli strumenti necessari per affrontare i problemi e difendere il nostro modello di inclusione sociale. Produttività per una crescita salariale, formazione e politiche attive del lavoro perché le transizioni da un lavoro a un altro siano garanzia di tenuta sociale richiedono una chiara visione strategica di quanto sta avvenendo e una disponibilità all’assunzione di responsabilità da parte di tutte le forze sociali.
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