Secondo alcuni meritava l’ergastolo come Turetta e Impagnatiello l’uomo che due anni or sono uccise moglie e figlia a Castelfranco Emilia e invece la Corte di assise di Modena ha condannato Salvatore Montefusco “solo” a trent’anni di carcere. E così infuriano le polemiche su tutti i mass media, con i professionisti della lotta al femminicidio in prima linea. Ormai per loro esiste solo il massimo della pena, l’ergastolo.
Poco importa che nel caso specifico l’imputato abbia oggi 72 anni e che quindi, verosimilmente, non uscirà più vivo dal carcere. Non rilevano, per chi ha severamente criticato questa sentenza, le condizioni particolarissime in cui è maturato il doppio omicidio: per chi si macchia di femminicidio l’unica pena che può soddisfare la sete di giustizia di certa opinione pubblica è l’ergastolo. Diversamente, se le sanzioni comminate sono troppo “lievi” – sostengono i rappresentanti delle associazioni contro la violenza sulle donne – si rafforza “la cultura patriarcale” e “si fa arretrare il percorso per l’eliminazione della violenza maschile”.
Non comprendono, i fautori del fine pena mai, che non tutti i gravi fatti di sangue sono uguali fra loro e che quindi non per forza, pur in presenza del medesimo titolo di reato, la pena da comminare debba essere sempre la medesima (una cosa è un omicidio di mafia o a scopo di rapina, altro è un delitto commesso per motivi sentimentali o con dolo d’impeto) e che compito del giudice è quello di valutare tutte le circostanze e i fattori oggettivi e soggettivi in cui maturano i fatti per poi quantificare una pena proporzionata.
È quello che hanno fatto i giudici emiliani nella loro dettagliata motivazione. Preliminarmente la sentenza ha ritenuto che non sussistessero molte delle aggravanti contestate dall’accusa e ha così escluso la premeditazione, i motivi abietti e futili e la crudeltà. Poi la Corte di assise ha spiegato come il delitto fosse maturato in un contesto familiare molto deteriorato, caratterizzato da continui litigi e denunce reciproche ove ciascuna parte rinfacciava all’altra di infliggere umiliazioni e vessazioni.
Lo stesso figlio del reo, sopravvissuto alla furia del genitore, ha riferito di aggressioni e maltrattamenti che anche il padre subiva a opera della figlia e della moglie, tanto che si rendeva urgente ed indifferibile la sua uscita dall’abitazione familiare. Questo clima aveva provocato enorme frustrazione nell’uomo causandogli un “blackout emozionale ed esistenziale” che, all’ennesima discussione con scambio di offese e accuse, gli ha impedito di controllarsi lasciandosi andare con un’esplosione di rabbia al folle gesto di imbracciare il fucile e sparare alle due donne. Queste le ragioni che, unitamente ad altri fattori comunemente ritenuti significativi dalla giurisprudenza (buon comportamento processuale, incensuratezza, confessione) hanno indotto i giudici a concedere le attenuanti generiche con conseguente esclusione dell’ergastolo e comminazione della più alta delle pene determinate: 30 anni.
La Corte di assise ha quindi motivato il proprio provvedimento con grande rigore e dovizia di particolari, indagando i profili psicologici e le implicazioni determinate dalle descritte dinamiche familiari, scrivendo oltre 200 pagine per spiegare le ragioni della sua decisione, che appare quindi tutt’altro che scandalosa, bensì oculata e scevra dai condizionamenti di un clima sociale forcaiolo, questo sì inaccettabile, che vorrebbe veder comminare solo ergastoli. L’ergastolo, appunto, pena ormai cancellata dai codici di numerosi Paesi e severamente censurata anche dal Papa, che l’ha definita “una pena di morte nascosta”. Sarebbe tempo che anche nel nostro Paese si facesse una riflessione seria ed approfondita sulla compatibilità del “fine pena mai” con la nostra Costituzione.
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