FINANZA E PENSIONI/ La “toppa” di Renzi peggiore del “buco” di Monti
Per FRANCESCO FORTE, il blocco delle rivalutazioni delle pensioni è stata un’imposizione discrezionale in base a cui un potere che si ritiene assoluto ha deciso quanto e a chi far pagare

La Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il blocco della rivalutazione in base all’inflazione per le pensioni superiori ai 1.400 euro. Il provvedimento era stato voluto dal governo Monti, e ha finora consentito alle casse pubbliche un risparmio stimato pari a 10 miliardi di euro che ora dovranno essere restituiti a circa 5,2 milioni di pensionati. A firmare il decreto era stato il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, che però ieri si è giustificata: “Vengo rimproverata per molte cose, ma quella non fu una scelta mia, fu la cosa che mi costò di più”. Per i giudici della Consulta sono stati violati gli articoli 3, 36 e 38 della Costituzione. Quest’ultimo in particolare al secondo comma afferma che “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”. Abbiamo chiesto un’analisi al professor Francesco Forte, ex ministro delle Finanze e per il Coordinamento delle politiche comunitarie.
A quali principi è ispirata la sentenza della Consulta?
Esiste una tradizione giuridica consolidata in Italia e in Europa, cui si rifà questa sentenza della Consulta, basata sui principi di uguaglianza, proporzionalità ed equità. Si tratta di principi accolti da tutte le corti costituzionali europee. È il motivo per cui i giudici costituzionali italiani hanno ritenuta illegittima la norma voluta dal governo Monti, che altro non fu se non una coalizione di importanti professori dell’Università Bocconi.
Qual è l’obiettivo di questa decisione?
L’obiettivo è ripristinare il principio di uguaglianza di trattamento da parte di chi ha pagato i contributi e deve ricevere una somma equivalente in termini reali e non solo monetari. A ciò si aggiunge una questione di proporzionalità e di equità. Non si può cioè derogare al principio di uguaglianza di trattamento tra contributi e pensione a scapito dei più deboli. Ma lo stesso non può avvenire anche a danno dei più abbienti senza un criterio di proporzionalità.
Vuole dire che la norma del governo Monti era stata applicata “a casaccio”?
Occorrono regole uguali per tutti, e non imposizioni di tipo discrezionale in base a cui un potere che si ritiene assoluto decide quanto e a chi far pagare come meglio crede. Non si può per esempio chiedere di versare una somma spropositata a chi ha da 100mila euro in su, e non fare pagare nulla a chi ha 90mila euro. Sono dunque questi i principi che la Corte Costituzionale ha adottato per le pensioni, principi che hanno una storia e che non sono nati ieri come il renzismo. Esistono regole costituzionali che si sono sviluppate in Italia e in Europa da ormai 60 anni.
Come fare a questo punto a coprire il buco nei conti pubblici?
In teoria con una spending review è possibile coprirlo. Il problema è che questo governo ha deciso di risolvere il problema tagliando le detrazioni sanitarie per i redditi superiori a una certa soglia. Anche questa misura però non è proporzionale. In più c’è un grave problema di eguaglianza ed equità, anche perché se una persona benestante paga più imposte dovrebbe anche avere diritto a maggiori prestazioni, o quantomeno alle stesse prestazioni degli altri.
Il Fisco dovrebbe tenere maggiormente conto anche dell’aspetto umano?
Sì. Un conto è tagliare le detrazioni sanitarie sull’aspirina, un altro conto è farlo sulle cure anti-tumorali. Poniamo che un contribuente ricco abbia la moglie affetta da una grave forma di cancro che richiede cure molto costose: quell’uomo a questo punto non è più un ricco, bensì un povero infelice. La vera questione non è quanto reddito ha, ma quanti problemi si ritrova ad affrontare. Potrebbero essere le medicine per riabilitare il figlio tossicodipendente o un familiare paraplegico, ma non si può calcolare tutto in termini meramente economici.
Quali sono i limiti di questa impostazione?
Il livello di reddito è un concetto keynesiano privo di valore etico. Abbiamo trasformato gli esseri umani in soggetti della dichiarazione dei redditi, a prescindere dal fatto che si tratti di persone invalide, con difficoltà fisiche o psichiche, ex carcerati, individui di una razza discriminata, soggetti con problemi familiari. Non si possono classificare equità, proporzionalità e uguaglianza usando come solo criterio il reddito.
(Pietro Vernizzi)
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