I problemi di instabilità e di poca crescita dell’Eurozona hanno cinque cause principali: a) i modelli economici delle nazioni principali sono basati su un tipo di redistribuzione fiscale della ricchezza che ne soffoca la creazione; b) le euroregole obbligano gli Stati al pareggio di bilancio ogni anno impedendo così il finanziamento in deficit temporaneo di tagli delle tasse o di investimenti pubblici, cioè stimoli fiscali; c) lo statuto della Bce definisce la sola missione di difesa del valore d’acquisto della moneta contro l’inflazione, ma non prevede, diversamente dall’America, il ricorso a politiche monetarie pro-crescita e di tutela dell’occupazione, se non in casi di deflazione violenta, logica irrazionale perché impone l’evidenza di una megacrisi prima di poter intervenire; d) l’assenza di un eurogarante dei debiti nazionali li rende di fatto denominati in moneta straniera ed esposti a valutazioni di rischio specifico invece che in relazione all’Eurozona tutta, esponendo gli Stati in difficoltà a problemi aggiuntivi; e) l’assenza di una politica economica integrata che bilanci le differenze nazionali di situazione rende l’area monetaria intrinsecamente instabile.
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Non sorprende che in queste condizioni il Fmi abbia previsto un futuro di crescita insufficiente per l’Eurozona e che il mercato sia incerto sulla sua continuità. Né può sorprendere che in questa eurogabbia l’Italia, appesantita dal megadebito e con un modello più dissipativo e inefficiente degli altri, riesca a crescere meno della media europea. Inoltre, il peso del debito italiano è maggiore perché ha mantenuto la sovranità sul debito stesso, ma cedendola sui mezzi per ripagarlo (bilancio e moneta) senza avere dall’eurosistema strumenti di flessibilità per ridurlo.
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E non sorprende il fatto che fiocchino proposte di riorganizzazione del sistema per non farlo implodere. Ma ritengo improbabile che quelle di maggiore integrazione politica per riparare i difetti b,c,d,e, detti sopra trovino consenso. Quindi la soluzione degli eurodifetti resterà a carico delle nazioni: ciascuna dovrà ritrovare crescita tagliando debito, spesa e tasse con politiche proprie.
Chi ci riuscirà non avrà problemi a restare in un eurosistema pur maldisegnato. Ma lo sforzo per riuscirci implica lo smontaggio dello Stato sociale, il trasferimento di milioni di persone dai mercati protetti a quello competitivo.
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L’Italia potrebbe farcela perché, pur disordinata, resta una potenza industriale e dovrebbe farlo per evitare il declino. Ma la politica riuscirà a gestire le tensioni sociali di questa transizione?