Si chiama “Decreto sblocca Italia”, Legge 11 novembre 2014, n. 164. Non ha sbloccato niente, di fatto, ma ha creato un fenomeno che si definisce e misura così, seguendo il testo stesso della legge: «Art. 24. – (Misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione del territorio). – 1. I comuni possono definire con apposita delibera i criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi su progetti presentati da cittadini singoli o associati, purché individuati in relazione al territorio da riqualificare. Gli interventi possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l’abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano. In relazione alla tipologia dei predetti interventi, i comuni possono deliberare riduzioni o esenzioni di tributi inerenti al tipo di attività posta in essere. L’esenzione è concessa per un periodo limitato e definito, per specifici tributi e per attività individuate dai comuni, in ragione dell’esercizio sussidiario dell’attività posta in essere. Tali riduzioni sono concesse prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme associative stabili e giuridicamente riconosciute».
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Non mi interessa tanto riflettere sulla positività o meno dell’art. in oggetto. Ormai sappiamo che alcuni Comuni – nel Nord, Centro e Sud, qui differenze non sussistono – hanno usufruito della possibilità di utilizzare il lavoro di cittadini morosi, con beni oggetto di pignoramento, insomma indebitati, dunque non più sovrani, oggettivamente dei sudditi, al fine di riqualificare il territorio, per dirla con una categoria forse perfino eccessiva (si è parlato e scritto di “baratto delle tasse”). Allora, mentre quasi tutti si interrogano o sulla praticabilità dell’azione in oggetto o del peso numerico ormai rilevante dei soggetti interessati, essendo sei case su dieci pignorate, in questo Paese, da alcuni anni, per non parlare delle tasse, imposte e affini, io vorrei intervenire su un altro aspetto: la sussidiarietà.
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Definizione tecnica: “In generale, il principio di sussidiarietà attiene ai rapporti tra i diversi livelli territoriali di potere e comporta che, da un lato, lo svolgimento di funzioni pubbliche debba essere svolto al livello più vicino ai cittadini e, dall’altro, che tali funzioni vengano attratte dal livello territorialmente superiore solo laddove questo sia in grado di svolgerle meglio di quello di livello inferiore”. Accettabile definizione, chiara e comprensiva degli elementi costitutivi della singolare realtà, che tutti danno per scontata con una malcelata ansia di censurarne il potenziale dirompente, a mio avviso, da fonte prestigiosa.
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Ora, risulta chiaro che questo collegamento tra le istituzioni e i cittadini, nella sussidiarietà, costituisca fatto di assoluto interesse se e solo se la libertà dei singoli abbia modo di esprimersi e anche creativamente. Perché il quadro istituzionale, cosa già nota a Pio XI e genialmente espressa nell’ enciclica Quadragesimo Anno, anno di grazia 1931, rappresenta la condizione di possibilità generativa dello sviluppo dal basso della società e dell’economia.
Recuperiamo il succo di questa illuminante verità, secondo la lettera della Quadragesimo Anno, articolata dove? Nella sezione, la n.5, che reca un titolo che è tutto un programma: Restaurazione dell’ordine sociale. Non so se mi spiego: l’ordine sociale deve essere restaurato perché, tanto per non far nomi, lo Stato l’ha destrutturato, pianificando il caos, e poi costringendo i cittadini a inventarsi agenti della sussidiarietà coatta.
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Osserva Pio XI: a) riforma delle istituzioni (altro titoletto niente male…, ma qui niente chiacchiera, i nostri Padri erano realisti metafisici, quindi tutto è “res”, realtà, roba dura, non c’era ancora la “comunicazione”, a quel tempo).
“79. E quando parliamo di riforma delle istituzioni, pensiamo primieramente allo Stato, non perché dall’opera sua si debba aspettare tutta la salvezza, ma perché, per il vizio dell’individualismo, come abbiamo detto, le cose si trovano ridotte a tal punto, che abbattuta e quasi estinta l’antica ricca forma di vita sociale, svoltasi un tempo mediante un complesso di associazioni diverse, restano di fronte quasi soli gli individui e lo Stato. E siffatta deformazione dell’ordine sociale reca non piccolo danno allo Stato medesimo, sul quale vengono a ricadere tutti i pesi, che quelle distrutte corporazioni non possono più portare, onde si trova oppresso da un’infinità di carichi e di affari.
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80. È vero certamente e ben dimostrato dalla storia, che, per la mutazione delle circostanze, molte cose non si possono più compiere se non da grandi associazioni, laddove prima si eseguivano anche delle piccole. Ma deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofa sociale: che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle.
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81. Perciò è necessario che l’autorità suprema dello stato, rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento, dalle quali essa del resto sarebbe più che mai distratta ; e allora essa potrà eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei solo spettano, perché essa sola può compierle; di direzione cioè, di vigilanza di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità. Si persuadano dunque fermamente gli uomini di governo, che quanto più perfettamente sarà mantenuto l’ordine gerarchico tra le diverse associazioni, conforme al principio della funzione suppletiva dell’attività sociale, tanto più forte riuscirà l’autorità e la potenza sociale, e perciò anche più felice e più prospera la condizione dello Stato stesso”.
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Dove voglio andare a parare? Arrivo subito. Un sociologo poco “sociologico” come Aldo Bonomi ha scritto un importante saggio per Feltrinelli nel 2010: Sotto la pelle dello Stato. Rancore, cura operosità , in cui l’art. 24 del Decreto “Sblocca Italia” è preconizzato, in chiave critica, perché frutto della dialettica strumentale e strumentalizzata tra cittadini divenuti sudditi, perché l’indebitato è un suddito in questa società, e lo Stato, il parastato e le forme istituzionali affini, secondo la quale chi sta sotto e non ce la fa mastica rancore e chi sta sopra e usufruisce anche delle tasse di chi sta sotto, si auto legittima o rilegittima assorbendo tutto, anche il debito e il fallimento dell’altro.
Tradotto: se non posso governare e ridare ordine alla società, allora invento la sussidiarietà coatta. Il che, si badi, potrebbe anche non fare male a nessuno e in fondo illudere chi la presta che lassù qualcuno mi ama. Ma, in realtà, è il segno dell’antico rovesciamento diabolico, già individuato dai Padri Greci e mirabilmente, infine, da Sant’Ignazio di Loyola, per cui ciò che è reale, la concretezza umana che vive e prospera dal basso, deve risalire la china aggrappata alla falsa chance di riabilitazione, parziale, concessa da chi non teme di dichiarare che, però, alla fine i conti devono tornare e quindi chi oggi taglia il prato del Comune deve prima ringraziare e dopo continuare a pagare, sempre di più, come tutti gli altri, perché il caos deve farla da padrone. Quel caos che puzza di solidarismo peloso, come lo zolfo semantico del diavolo in libera uscita. La nostalgia per Pio XI e anche qualche bel marxistone di un tempo è diventata ormai inarrestabile, per quel che vale.