Sono sincero: francamente non mi interessa per nulla cavillare su come si sia arrivati all’accordo con l’Ue, chi abbia vinto e chi abbia perso. L’importante era evitare la procedura d’infrazione, perché per quanto dilatata nel tempo e percepita come all’acqua di rose, tale non era. Quantomeno, perché avrebbe aperto un vulnus di medio periodo potenzialmente irreparabile. Un’ipoteca sul futuro, di fatto. Chiunque sia chiamato a gestirlo, questo governo o un altro, politico o tecnico. Una sola cosa, però, deve essere chiara fin d’ora, se si vogliono evitare brutti risvegli di fine inverno: abbiamo superato una prova, ma la gara è lunga. Siamo solo all’inizio e, questo permettetemi di dirlo, ci siamo voluti complicare non poco la vita. Insomma, abbiamo scelto di legarci dei pesi alle caviglie: per questo siamo arrivati a fine percorso con il fiatone e sulle gambe. Speriamo serva di lezione. Ma ne dubito, perché l’appuntamento con le europee, di fatto, è dietro l’angolo. Giusto il tempo di santificare le feste natalizie, tirare il fiato qualche giorno e il rientro al lavoro del Parlamento coinciderà con l’apertura di una campagna elettorale lunga cinque mesi. E, temo, senza esclusione di colpi. Bassi ma anche votati all’autolesionismo.
Per due ragioni. Primo, temo che passata la febbre da spread e archiviato il quotidiano teatrino con Bruxelles, qualcuno a Roma sarà tentato di sfruttare il “semestre bianco” che si aprirà di fatto a gennaio in Europa per rimettere mano, nei fatti, a quanto promesso e concordato in queste ore: non sarebbe il primo a farlo, né in Italia, né all’estero. Emmanuel Macron, in nome dell’emergenza “Gilet gialli” (ovvero, sondaggi), sforerà il 3% con ulteriori 10 miliardi di deficit rispetto alla manovra già approvata con riserva dalla Commissione in autunno. Potrebbe essere un precedente pericoloso. E tentatore. Perché per quanto la tregua natalizia regalerà tempo prezioso e benedetto all’esecutivo, oggi come non mai provato dalla convivenza forzata fra due forze antitetiche, quantomeno a livello di elettorato core di riferimento, prima o poi i “numeretti”, i “decimali” su cui si è dovuto trattare con Bruxelles dovranno non solo essere resi noti al Parlamento nella loro interezza, ma anche spiegati ai cittadini nel loro impatto reale sulla vita quotidiana.
Per capirci, quando partirà davvero il reddito di cittadinanza, per quale platea e con quali importi? E quota 100, quando partirà operativamente e chi potrà beneficiarne? Babbo Natale ha portato l’accordo con la Commissione, ma anche la fine dei proclami: ora, con l’ok sub judice e molto condizionato dell’Ue, occorre fare i fatti. Per quello, temo, qualcuno sentirà la stringente necessità elettoralistica di fare il furbo, contando sul fatto che l’ondata sovranista spazzerà via la vecchia nomenklatura europea e da inizio giugno si avrà a che fare con una Commissione amica che chiuderà un occhio. Scordiamocelo, errore più imperdonabile non potrebbe essere commesso. E il perché è presto detto e rappresenta la seconda ragione di preoccupazione: da qui alle europee, sui mercati succederà di tutto. E per “di tutto” intendo cosa che mai si sarebbero messe in preventivo soltanto la scorsa estate, quando la narrativa generale era quella della ripresa globale, sincronizzata, sostenuta e sostenibile. E, soprattutto, trainata dal boom mediatico dell’economia Usa.
Diciamo che l’intero impianto propagandistico pare un po’ annebbiato, per la stessa ragione che renderà agitate, da oggi in poi, le notti giallo-verdi: è l’ora dei fatti, adesso. Dei numeri, delle cifre. Di quella maledetta della realtà. E per quanto Mario Draghi abbia detto chiaramente che, al netto della fine ufficiale del Qe, la Bce continuerà a operare da backstop per l’eurozona, sia a livello di spread con il reinvestimento dei bond, sia di liquidità, occorrerà da subito vedere come evolverà la questione Brexit. E non c’è molto tempo davanti a noi, al netto dell’atteggiamento irremovibile rispetto ai termini dell’accordo raggiunto da parte di Bruxelles: il 14 gennaio a Westminster si “recupererà” il voto rimandato lo scorso 11 dicembre, quello make or break. Se la May soccomberà ai numeri, dovrà dimettersi e portare il Paese verso elezioni anticipate. Ma, soprattutto, a quel punto occorrerà decidere fra due strade: il cosiddetto Brexit no deal, ovvero uscire senza un piano concordato con l’Europa e in maniera “disordinata” oppure bloccare l’intera operazione, magari proprio sfruttando il ritorno alle urne per le politiche e con esse, data la quasi certa vittoria del Labour, la messa in cantiere di un secondo referendum che chiuda i conti una volta per tutte.
In tal senso, la durissima polemica fra la stessa Theresa May e l’ex premier Tony Blair, testimonial del ritorno al voto per decidere lo status di Londra, parla molto chiaro. Anche perché con la vittoria – quasi scontata – del Remain e, in punta di sentenza della Corte Ue, il ritiro unilaterale di Londra dell’attivazione dell’articolo 50, l’epilogo raggiunto rischierà di rappresentare una pietra tombale sulle possibilità dei Tories di tornare al 10 di Dowing Street almeno per un tre legislature: “Abbiamo scherzato, restiamo con l’Europa” è qualcosa che molti britannici non perdonerebbero mai al partito che fu di Winston Churchill e Margaret Thatcher. Pensate che i mercati ci metteranno molto, stappato lo champagne per salutare il 2019, a cominciare le loro “prezzature” preventive di tutte queste ipotesi in gioco? E che questo, unito alle attese per gli sviluppi della guerra commerciale fra Usa e Cina, oltre alle dinamiche sui tassi che la Fed imposterà per l’anno a venire, non inneschi un aumento della volatilità impressionante e non solo sul cambio della sterlina?
E chi paga per primo il prezzo alla volatilità? I soggetti più deboli, quelli con l’indebitamento maggiore e le dinamiche macro più instabili. Normalmente, pensando all’eurozona, verrebbe da dire l’Italia e la Spagna in prima battuta, ovviamente con la Grecia che agisce quasi da free agent tipo giocatore svincolato della Nba. Ma non è più così: l’economia della Germania nel terzo trimestre era già in contrazione e se il quarto confermerà il dato, saranno dolori. La Francia, poi, ha sì dinamiche di debito pubblico e spread più gestibili delle nostre, nonostante le tensioni sociali, ma un sistema bancario e un indebitamento privato molto, molto problematici. Insomma, l’eurozona nel suo complesso rischia di pagare l’aumento della volatilità come non ha mai fatto prima d’ora. Ecco perché Mario Draghi ha detto chiaro e tondo che i tassi staranno piantati a zero almeno per tutta l’estate e che lo stimolo monetario, seppur in forma differente, resterà tale da garantire liquidità al sistema. In primavera, questo appare certo fin d’ora, ci saranno aste Ltro di finanziamento a lungo termine per il sistema bancario europeo. Lo dicono i numeri, al di là delle smentita di pragmatica. E lo dice questo grafico, dal quale si desume non solo che il sistema bancario europeo rappresentato dall’indice benchmark Stoxx 600 Banks nell’anno che sta per chiudersi ha bruciato 300 miliardi di euro di denaro degli azionisti, ma anche che questo dato è il peggiore in assoluto per il comparto dal 2011, anno della crisi dei debiti sovrani dell’eurozona.
E al netto dei guai di Deutsche Bank, è il nostro sistema bancario il più esposto ai marosi, sempre e comunque per il doom loop con le detenzioni di debito sovrano: oggi il calo dello spread è accolto come manna dal cielo, ma se la volatilità di gennaio dovesse innescare nuova tensione, ci vuole poco a farlo impennare. Perché i nostri istituti hanno a bilancio troppo, davvero troppo controvalore in Btp. Attenzione, in ultima istanza, a un fattore tecnico, legato al settore azionario. Come infatti l’accordo fra Roma e Bruxelles non deve far cantare vittoria troppo presto, anche una dinamica apparentemente positiva rivelatasi in questi giorni fra le equities non deve affatto stare tranquilli: quasi nessuno, infatti, a oggi è short, ribassista, sul mercato. La cosa non deve stupire, in effetti e in maniera logica: dopo le batoste patite per trimestri e trimestri di mercati rialzisti garantiti dalle Banche centrali, anche gli short sellers più irredimibili hanno ceduto all’evidenza e hanno battuto in ritirata.
Questo, però, porta con sé un rischioso effetto collaterale: essendo arrivato il fine ciclo, sia per minore operatività delle Banche centrali che per limitato afflusso di controvalore dei buybacks ed entrando quindi in fase strutturalmente ribassista, la presenza di shorts sul mercato opera di fatto da “freno” potenziale a ogni accelerazione delle sell-off, evitando ecatombi in rosso. Ma senza shorts non ci sono nemmeno ricoperture degli stessi, quindi la dinamo di salvataggio da ogni svendita di ampia dimensione.
Di fatto, una dinamica tecnica, ma di facile intuizione: senza il supporto delle ricoperture forzate di chi è al ribasso, il mercato rischia di cedere a una spirale autoalimentate dei cali, essendo questi oggi giustificati dai fondamentali macro di un mercato dominato da bolle che, in un modo o nell’altro, prima o dopo, devono scoppiare. A meno che le Banche centrali non ricomincino a gonfiarle, come palloncini colorati. E che la recessione che abbiamo davanti sarà severa e globale, lo ha indirettamente confermato ieri FedEx, leader mondiale delle spedizioni, quindi un proxy perfetto dello stato di salute dell’economia e del commercio, la quale ha tagliato di netto il proprio outlook per l’anno a venire, soltanto tre mesi dopo la sua ottimistica revisione al rialzo. Tre mesi.
Il deterioramento delle dinamiche mondiali è in accelerazione, occorrerebbe tirare su barricate e riempire di sabbia i sacchetti per le trincee. Temo, invece, che qualcuno a Roma sia tentato dall’atteggiamento contrario.