Vittadini: gli atenei diventino fondazioni private
La possibilità data alle università di trasformarsi in fondazioni permetterebbe loro di procurarsi da sole le risorse necessarie per vivere, come accade oggi negli Usa. E ciò prevedibilmente avverrebbe sulla base di qualità di didattica e ricerca, con un naturale riassestarsi in alto del sistema

Nelle polemiche di questi giorni riguardanti i tagli di spesa all’università contenuti nel Dl n. 112 si dimentica un aspetto non secondario della recente vita dell’università italiana.
Negli ultimi anni Camere di commercio, associazioni ed enti locali, pubblici e privati, hanno promosso, anche in piccole località, dei comitati per dar vita a nuove università. Dopo un po’ di anni, queste università hanno richiesto di essere riconosciute e finanziate dallo Stato centrale, cosa che è puntualmente avvenuta nella quasi totalità dei casi. Invece di creare sedi staccate di grandi università, come è avvenuto in pochi casi virtuosi, si è voluto premiare interessi locali, che con la qualità della ricerca e della didattica non c’entrano nulla. Le spese per il sistema universitario sono così ora disperse in mille rivoli. Come uscire allora, da questa situazione?
Per rispondere si pensi agli Stati Uniti, dove ci sono miriadi di università e college, molti anche di valore discutibile. L’unica sostanziale differenza è che questi college non sono finanziati in maniera preponderante con trasferimenti statali, che invece sono erogati in gran parte come borse e prestiti agli studenti che scelgono dove spenderli. La qualità delle strutture universitarie diventa criterio determinante nella loro capacità di reperire risorse.
Per questo appare come potenzialmente “rivoluzionaria” la norma, finora ignorata nel dibattito, secondo cui le università si possono trasformare in fondazioni di diritto privato. Le università sarebbero autonome, giuridicamente e finanziariamente, libere di cercarsi partner privati, non appiattite sulle norme burocratiche di gestione delle amministrazioni pubbliche, in particolare quelle inerenti collaborazioni di ricerca con imprese ed altri enti pubblici e privati. Progressivamente si potrebbe favorire il fatto che, almeno in parte, le università si procurino da sole le risorse necessarie per vivere, come accade oggi negli Usa. E ciò prevedibilmente avverrebbe sulla base di qualità di didattica e ricerca, con un naturale riassestarsi in alto del sistema. Certo, c’è molto da lavorare perché questa idea sia perfezionata già a partire da questo decreto e risponda alle molteplici necessità, anche nella fase di transizione. Ma c’è qualcuno disposto veramente ad accettare la sfida della qualità?
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