Perché in questa tempesta di parole, analisi, invettive, promesse, verbigerazioni rissose o frustrate che ad ogni inizio dell’anno provengono dall’universo scolastico, perché non dare la parola anche agli studenti? Non solo ai loro rappresentanti eletti in liste para-partitiche, non solo a quelli che giornalisti nostalgici spingono ogni anno sulla scena per recitare un nuovo improbabile ’68, non solo a costoro, ma anche ai ragazzi “normali”?
Ed è questo “l’uovo di Colombo” che ha messo sul tavolo degli scettici la Fondazione Intercultura, in collaborazione con Susanna Mantovani, docente di Psicopedagogia nonché Prorettore all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, organizzando una ricerca qualitativa intitolata La scuola che vorrei: la voce dei giovani. Che cosa dicono della scuola che hanno attraversato e quale scuola vorrebbero per i loro posteri e per il Paese?
Si tratta di una ricerca in divenire, costruita con un gruppo di 50 ragazzi di ogni parte d’Italia, che hanno lasciato la scuola da due anni, che hanno frequentato un anno all’estero in tutti i continenti, che frequentano il secondo anno di università. Dunque: insider/outsider del sistema, capaci per esperienza diretta di fare comparazioni tra i sistemi educativi, pur senza averli studiati. Insegnanti, opinionisti, esperti richiamano alla centralità dei ragazzi, magari per dire, in nome della “personalizzazione”, che occorre costruire con loro i percorsi di apprendimento.
Ma è raro che i ragazzi vengano interpellati su quale idea avrebbero di scuola, quasi che non fossero ritenuti in grado di esercitare un’autoriflessione non solo sui singoli contenuti, ma su strutture e logiche del sistema educativo, a partire dalla loro esperienza. Eppure, osserva un ragazzo, “sono tre anni che stiamo in pensiero per la scuola”! Due sintesi/sentenze emblematiche riassumono il tutto, una drastica, una più “ottimista”: “Abbiamo passato tanto tempo nella scuola, ma la nostra vita non era lì”; “La scuola italiana non sarebbe nemmeno tanto male… se solo funzionasse!”.
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Che cosa non funziona dunque? Ecco alcuni giudizi: troppi contenuti (voli su tutto, ma non ti fermi mai a pensare); i metodi frontali di insegnamento sono monotoni e passivizzanti (tutti studiano e apprezzano il metodo socratico, ma chi lo applica?); troppo teorica (le conoscenze teoriche non sai mai come applicarle, perché non te l’hanno mai fatto fare); ha una bassa stima dei giovani (nella scuola americana lo studente non viene considerato come un vaso da riempire di contenuti accademici, bensì come una mente fresca che critica, si confronta, analizza); pone al centro i programmi, non gli studenti (deve essere valorizzato lo studente, e non solo i libri, la conclusione dei programmi, che è impossibile); è punitiva, non premia e non motiva (è una scuola punitiva che non incoraggia; in Svizzera riconoscevano gli sforzi); è noiosa (non vedi l’ora che finisca e uscire); è autoreferenziale (poco collegata con il territorio, il mondo del lavoro e il mondo universitario); è deresponsabilizzante (è un gioco a chi va peggio; se vai male, non succede nulla!).
Questi giudizi tratti dall’esperienza diretta confermano i cahiers de doléances elaborati nei decenni da generazioni di alunni, di insegnanti, di studiosi. Sono oggi, nel 2010, gli stessi di 40 anni fa. Ed proprio questa la scandalosa notizia! Data questa pars destruens, quali sono le proposte di riforma della scuola che i 50 giovani ventunenni fanno?
Sono divise in 10 aree-chiave. I cicli scolastici: un unico percorso, che offra la possibilità di scelta e di approfondimento nell’ultimo biennio/triennio; durata della scuola: o 12 anni o 13 – come ora – ma l’ultimo anno già pensato come transizione al lavoro o all’Università;
Il curriculum: una partizione delle materie in un 60% obbligatorio – italiano, matematica e logica, inglese, educazione civica e alla cittadinanza europea e mondiale, sport (non l’educazione fisica, ma la pratica effettiva!) geografia mondiale, storia contemporanea, informatica (non studiare il computer, ma con il computer!) e in un 40% opzionale: latino, greco, arte, filosofia, economia, lingue europee e extraeuropee (arabo, cinese…), musica, religioni, ecologia, diritto ecc…;
Programmi essenziali e meno vincolanti; gruppo classe stabile solo per le materie obbligatorie; lezioni al pomeriggio, no alla scuola di sabato;
Ambienti fisici funzionali, non fatiscenti, puliti e curati, attrezzati, personalizzati che trasmettano il valore della scuola e il valore degli studenti;
La valutazione è fondamentale, ma deve essere rigorosa, chiara nei criteri e articolata nelle forme, accompagnata dall’incoraggiamento e dal riconoscimento dello sforzo;
Gli insegnanti: più giovani, colti, rigorosi, comunicativi, adulti coerenti e modelli di comportamento (…nel rispetto di regole comuni, nel vivere i valori che predica), adulti appassionati (che valorizzino i giovani come menti giovani, critiche e innovative, non ingenue e destrutturate), adulti capaci di relazioni equilibrate (non amicone, non intrusivo, ma neppure sarcastico e distaccato, capace di entrare in relazione rimanendo adulto, consigliere, punto di riferimento);
Scuola e lavoro: negli ultimi due anni occorrono degli stage in aziende, enti pubblici musei ecc..; autonomia scolastica: le scuole possano assumere direttamente gli insegnanti.
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Questi ragazzi forse non sanno che molte delle loro proposte, che in Italia sono considerate troppo audaci o irricevibili, sono già state realizzate in molti Paesi. Ed è proprio questo che rende la loro testimonianza molto interessante. Il Documento Tomlinson del 2004 in Gran Bretagna proponeva l’autocanalizzazione, facendo saltare definitivamente la bipartizione euro-continentale tra Licei e Tecnici e Istituti professionali (che in Italia è divenuta quadripartizione: Licei, Tecnici, Professionali e Formazione professionale).
In Finlandia, è da tempo in vigore la distinzione tra obbligatorio (appunto il 60%!) e l’opzionale. In Germania l’alternanza scuola-lavoro è praticata massicciamente. L’Unione europea ha raccomandato l’adozione del core-curriculum e di una tavola di competenze-chiave…
Le proposte degli studenti si devono prendere sul serio, cioè discuterle francamente, senza storcere il naso di esperto, addetto, specialista ecc… Non sono affatto ingenue, non sono tutte necessariamente condivisibili. Non spetta solo agli studenti definire che cosa devono studiare e cosa no; tocca anche agli adulti, le cui responsabilità sono chiamate in causa, definire il core-curriculum, rimanendo sempre la libertà da parte dello studente di abbracciarlo o no e di pagarne in questo caso, si intende, le conseguenze.
Ma questa ricerca, destinata a continuare, segnala che i ragazzi non sono “bamboccioni”, se non nella misura in cui gli adulti li infantilizzano. Quando sono presi sul serio (ma gli adulti non sono interessati ai giovani!), si dimostrano quali appaiono qui: uomini e donne che stanno confrontandosi con il mondo, anche con quella parte di esso in cui hanno passato i 13 anni cruciali (non credevamo di avere tante idee sulla scuola!) e che una cultura conservatrice e una politica egoista hanno confinato come un “mondo a parte”.