Carlo Fedeli ci ha fatto dono di un’osservazione di Romano Guardini sulla “progressiva attenuazione del senso dell’essere”, e quindi sulla conseguente atrofizzazione della capacità di percepire il reale come un segno che urge a oltrepassare l’immediatezza dell’apparente per attingere alla profondità del significato della realtà. La sconcertante crisi globale di civiltà e società, entro cui nascono le nostre difficoltà personali, rimbalza all’interno di tensioni e contraddizioni individuali e sociali e tende a farsi incontrollabile contemporaneamente al dilagare dello smarrimento di uno scopo ultimo in grado di giustificare positivamente la fatica del vivere.
Per chi ha perduto il senso della sua personalità, il significato della socialità, la tensione ideale del senso religioso, ne deriva una condizione umana nevrotica e malata, una percezione di sé come di un soggetto scisso, dilacerato di fronte al suo stesso agire: Picasso che disegna la figura umana in parti scomposte esprime efficacemente la scissione fra l’individuo e la società, la rottura fra il passato e il presente, la divisione della morale dall’arte, il muro tra reale e ideale, l’estraneità tra profano e sacro. Lo spettacolo penoso è quello di una dissociazione mostruosa fra elementi fatti per congiungersi e completarsi nell’unità della vita. Così tutte le manifestazioni dell’esistenza si caricano di un’incertezza ansiogena, fino a una sorta di rassegnato smarrimento. Non può essere diversamente quando si avverte perduto il gusto stesso del vivere e si assiste impotenti alla diffusione di un’omologazione unidimensionale della società al consumismo.
Sennonché, la rinuncia a un orizzonte di totalità ferisce il dinamismo peculiare della nostra ragione e contraddice la natura propria dei nostri più originali desideri. “I desideri che partono veramente dal cuore – l’osservazione è di Luigi Giussani -, quelli veramente costitutivi, sono desideri senza limite, hanno un orizzonte che è come un angolo aperto all’infinito, perché mirano, partendo da un qualsiasi punto, alla realizzazione della persona intera”. L’uomo è fatto per l’universo e ha bisogno di tutto il mondo, di avvicinarsi a tutto e nutrirsi di tutto, e quindi di integrare ogni cosa nella vita totale della sua persona. Sovviene alla mente questa nota affermazione di Hegel: “Il vero è l’intiero. Ma l’intiero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo”. Un simile traguardo non è mai definitivamente raggiunto, ogni tappa può essere sempre rimessa in questione, ed è sempre possibile trovarsi nella necessità di un nuovo avvio, perché niente di ciò che è parziale può surrogare la pienezza di verità, felicità e libertà che l’uomo incessantemente cerca.
Non mancano autori che ci ricordano la forza di questo nostro desiderio. Vale la pena meditare quest’antica intuizione di Romano Guardini: “Tutto ciò che è finito, è difettoso. E il difetto costituisce una delusione per il cuore, che anela all’assoluto. La delusione si allarga, diviene il sentimento di un gran vuoto … Non c’è nulla per cui valga la pena di esistere. Non c’è nulla, che sia degno che noi ce ne occupiamo. [Su questa base si comprende cosa sia la malinconia …] Proprio l’uomo malinconico è più profondamente in rapporto con la pienezza dell’esistenza. […] L’infinito testimonia di sé, nel chiuso del cuore. La malinconia è espressione del fatto che noi siamo creature limitate, ma viviamo a porta a porta con […] l’“assoluto” […]. La malinconia è il prezzo della nascita dell’eterno nell’uomo. La malinconia è l’inquietudine dell’uomo che avverte la vicinanza dell’infinito”.
Accogliere la brevità di ciò che passa nella totalità di ciò che costituisce l’unità della cultura assume una particolare rilevanza nel rapporto educativo, perché esso trova la sua giustificazione in un contenuto di senso capace di unire la vita dell’educatore e dell’educando. L’attenzione di chi educa non consente all’astrattismo; quando guarda in un punto, deve tener conto di tutto il resto, nella consapevolezza che solo così il punto guardato si proporziona veramente. In tal modo, può sperare di inserire ogni suo intervento in un complesso coerente poiché organico all’intero sviluppo perfettivo della persona. Se la formazione della persona nella complessità dei suoi aspetti è lo scopo peculiare dell’educazione, allora si deve considerare l’uomo secondo tutta la verità della sua soggettività spirituale e corporale, e quindi anche nella totalità delle sue potenzialità ancora da realizzare, cioè nel suo farsi persona, nel suo poter-essere-persona lungo il corso della sua vita.
L’esplicita apertura alla totalità segna l’atteggiamento adeguato a garantire l’educazione dal non ridursi semplicemente a un percorso abilitante allo svolgimento di un ruolo particolare. Nel frazionamento introdotto dalla specializzazione dei saperi, occorre salvare uno sguardo non diviso. Al riguardo, l’educatore dovrà meno preoccuparsi di insegnare nuove nozioni e sempre più integrare quanto altrimenti resterebbe abbandonato alla discontinuità e al contrasto. L’unità interiore di pensiero e di disposizione, insistentemente richiesta nel nostro tempo, chiede una sintesi tra lo sforzo scientifico, tecnico e professionale e il senso umano dell’esistenza.
L’educatore è tale se trova il modo di coinvolgere in un’esperienza di unità la persona, non come un oggetto, ma come un protagonista chiamato ad assumere se stesso nella totalità della realtà umana. Allo scopo, egli dovrà concentrarsi con cura su quell’elemento che costituisce l’intero e l’uno dell’esistenza, e quindi sorvegliare per non distrarsi nei mille particolari della composita realtà umana. Da qui scaturisce l’opportunità di riconsiderare la tradizione metafisica; infatti, è nella profondità del suo rapporto con l’essere che l’uomo sperimenta la sua apertura all’infinito e la sua unità personale. Nel contempo, io – scrive Luigi Stefanini – «mi rendo competente sull’essere, osservando quel che è l’essere in me stesso”. Questo mi pare il principio catalizzatore capace di fare affiorare le radici del fenomeno umano, di portare a visibilità il suo nucleo più profondo. Scrive Giuseppe Vico: “Parafrasando ciò che Platone afferma riferendosi ai filosofi, anche per i pedagogisti e per gli educatori vale il detto: Chi è capace di vedere l’intero è filosofo, chi no, no”.
L’intero di cui si parla è precisamente quanto costituisce la totalità originariamente indivisa dell’esperienza. Qui la persona è veramente se stessa e a se stessa si sente affidata. Poiché la vita possiede e conserva un’unità interiore, una certa consistenza e un’intrinseca omogeneità, il pensiero pedagogico deve nascere dall’organica unità dell’esperienza nella sua totalità, deve essere in funzione dell’intera personalità, con i suoi interessi sia pratici sia teorici. L’intero visto dal pedagogista non è solo un’unità di funzionamento, un’addizione di profili molteplici, con un risultato che solo soggettivamente costituisce una totalità, ma è una totalità preliminare da rispettare e aiutare a esplicitarsi. Solo chi attinge a questo livello d’intelligenza, conosce la forma intuitiva e il senso dell’azione educativa non restando paralizzato dall’incertezza scettica. Conta, però, rimarcare che vedere l’intero non è un esito raggiunto da chi sorvola sulle particolarità, bensì è il riconoscimento di una unità genetica e aperta a tutto quanto è veramente umano.