Qualche giorno fa, in premessa a un intervento sulla necessità di riformare la scuola media, la preside Annamaria Falco scriveva su queste pagine che “dovrebbe essere rivisto in ambito contrattuale il profilo professionale dei docenti della scuola pubblica, che non può più delinearsi quale lavoro eminentemente femminile, praticamente part-time, a carattere quasi stagionale”. Al che, senza finire l’articolo, ho postato un commento senz’altro poco dialogico; per il quale, però, mi concedo l’attenuante della provocazione, che viene a pochi mesi dal tentato blitz governativo per imporre agli insegnanti sei ore di cattedra (gratis) in più.
Preoccupa che arrivi dall’interno della scuola una simile disconferma delle difficoltà e della fatica che la maggior parte dei docenti incontra nel proprio lavoro – chi più chi meno a seconda del carattere, dell’esperienza e soprattutto del tipo di allievi che ci si trova davanti; e c’è da chiedersi come sarebbe possibile impostare correttamente su queste basi una riforma dello stato giuridico degli insegnanti.
È avvilente dover ripetere per l’ennesima volta quanto possa logorare l’esercizio continuo della relazione, sulla quale si basa l’insegnamento. Non si spiegherebbero altrimenti i dati che il dottor Vittorio Lodolo D’Oria sottopone vanamente da anni a governi e sindacati, dati allarmanti sull’aumento fra i docenti delle patologie psichiatriche e persino di quelle oncologiche. La situazione è stata recentemente aggravata dalla mazzata della riforma pensionistica, sui cui effetti psicologici, ovviamente, nessuno si è preoccupato di indagare né prima né dopo. E non si può sorvolare sul principale fattore dello stress professionale, cioè sul fatto che spesso si scarica sugli insegnanti un compito non svolto dalla famiglia: quello di far arrivare alla scuola dell’infanzia bambini che un’educazione precoce abbia già messo in grado di controllare le proprie pulsioni e di gestire i primi legami sociali.
Per parte sua la scuola è largamente contagiata da teorie pedagogiche che aggravano questa carenza iniziale, dando un ruolo esclusivo alla pur necessaria vicinanza affettiva e al dialogo a tutti costi, mentre il rispetto delle regole è in genere perseguito senza convinzione e viene fortemente interdetta l’idea stessa di sanzione educativa, che nella scuola primaria (con bambini ormai molto diversi da quelli di un tempo) non è neppure prevista formalmente.
Quanto all’oggetto dell’articolo, cioè la scuola media e la sua possibile riforma, mi limito a fare due osservazioni. La prima è che continua a sembrarmi poco solidamente fondata la conclusione che costituisca senz’altro “l’anello debole” o, meno leggiadramente, “il buco nero” del sistema scolastico. Già nel 2008, al tempo dello scontro sul “maestro unico”, Luca Ricolfi metteva in dubbio “Il mito della scuola elementare”, come si intitolava un suo intervento sulla Stampa.
Dato che i test Invalsi indicavano che il declino dei risultati dell’apprendimento comincia già alle elementari e che in quarta i bambini vanno sensibilmente peggio che in seconda, “forse – concludeva – la cattiva fama della scuola media inferiore e dei suoi insegnanti è in parte immeritata”.
La seconda osservazione riguarda l’affermazione della preside Falco, per la quale “è necessario e fondamentale rivoluzionare la didattica”. Questa di auspicare o di annunciare di continuo rivoluzioni è un’abitudine deleteria diffusa tra chi si occupa di scuola. Basta mettersi per un momento nei panni degli insegnanti per rendersene conto: se la didattica va “rivoluzionata”, è chiaro come il sole che quanto abbiamo fatto fin qui non vale niente; e come è possibile ripartire con entusiasmo, se si deve gettare alle ortiche l’esperienza accumulata? Che effetto può avere un messaggio del genere sui tanti docenti seri che lavorano con impegno e sacrificio, dando fondo alle proprie risorse? È ovvio che il risultato è far mettere sulla difensiva i destinatari, compresi quelli che avrebbero più bisogno di migliorare la propria attrezzatura professionale.
Nella realtà le persone non ricominciano mai da zero: sperimentano, correggono gli errori, si evolvono gradualmente. Accantoniamo quindi le tentazioni giacobine e partiamo dal basso invece che dall’alto, promuovendo la praticadel lavoro seminariale all’interno della scuola, come metodo in grado di valorizzare la professionalità degli insegnanti attraverso la condivisione delle esperienze e il confronto fra pari. Come ha scritto George Bernard Shaw, “Se tu hai una mela e io ho una mela e ce le scambiamo, tu ed io abbiamo sempre una mela ciascuno. Ma se tu hai un’idea e io ho un’idea e ce le scambiamo, allora abbiamo entrambi due idee”.
Nello stesso tempo il metodo seminariale, tipico delle professioni, non esclude affatto la possibilità di individuare via via alcuni argomenti da approfondire con il contributo di esperti esterni. La mia esperienza personale di docente delle medie mi ha fatto comprendere, avendo più volte promosso con ottimi risultati questo tipo di incontri e purtroppo seguito troppi inutili corsi di aggiornamento, che c’è una bella differenza tra essere oggetto ed essere soggetto della propria crescita professionale.