Conclusa anche la seconda prova di questi esami di maturità 2013, gli studenti sono pronti a rimettersi sui libri per ripassare il programma dell’anno scolastico in vista di lunedì, giorno in cui andrà in scena la terza prova, il cosiddetto “quizzone”. Si tratta di uno degli impegni più temuti, composto da una serie di domande che non verranno formulate dal Ministero ma che sono definite direttamente dalle singole commissioni esaminatrici: sono previsti dunque quesiti a risposta multipla (da 30 a 40 domande), quesiti a risposta singola (da 10 a 15 domande), casi pratici o professionali, trattazione sintetica e problemi scientifici a soluzione rapida. In attesa della prova che anticipa l’esame orale, Sara Nosari ha svolto per noi il tema di Pedagogia proposto ieri dal Ministero dell’Istruzione agli studenti del corso sperimentale Progetto “Brocca”, indirizzo socio-psico-pedagogico. Ecco di seguito la soluzione di due temi che lo studente poteva scegliere tra quelli proposti. In particolare, il primoè tratto da “Misurazione e valutazione nel processo educativo”, di Aldo Visalberghi, mentre il secondo da “Sull’avvenire delle nostre scuole” (1872), di Friedrich Nietzsche.
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La realtà dell’educazione è caratterizzata da alcune specifiche antinomie come educazione/istruzione o libertà/autorità. Impossibile decidere una volta per tutte per una delle due parti. Per quanto possa prevalere una delle due, non c’è situazione che escluda radicalmente l’altra. La loro, tuttavia, non è una semplice compresenza, ma una relazione che “vive” e che, come tale, prende forme diverse.
Di queste antinomie fa parte anche la questione misurazione/valutazione che presenta una delle criticità fondamentali del processo educativo ponendo, per un verso, il problema del rigore dell’accertamento del profitto e, per l’altro, il problema del valore incommensurabile del soggetto. Si tratta di una questione che rinvia alla natura stessa del sapere pedagogico che si distingue proprio perché posto all’intersezione di scienza sperimentale e riflessione filosofica, ma anche di una questione che impegna nella definizione di una teoria capace di trasformare questa stessa posizione in una risorsa. Occorre pertanto lavorare alla proposta di un “ordine” capace di tenere insieme misurazione e valutazione.
Non vi è dubbio che la misurazione attraverso prove oggettive rischia di trasformare il processo educativo in una serie di prestazioni da tradurre in una classificazione, con inevitabile eliminazione. La riduzione del “mondo” della persona ai dati di una sua prestazione non può che implicare graduatorie, competizione e selezione, ossia azioni che non colgono l’unicità o l’originalità del singolo individuo. È infatti impossibile misurare il valore “personale” o “sociale”, perché di queste dimensioni non è data oggettivazione e, di conseguenza, non ne è possibile un calcolo.
Quanto, tuttavia, graduatorie, competizione e selezione sono da considerare unicamente una riduzione e, di conseguenza, una opposizione al processo educativo inteso come libero e armonico sviluppo delle attitudini individuali e delle disposizioni sociali? In fondo, come possiamo valutare lo stesso sviluppo in mancanza di “dati” che ce ne dicano la “posizione”? Verso quali obiettivi muovere i diversi processi della formazione se non è conosciuta la condizione di partenza o non è possibile conoscerne l’avanzamento?
Questa criticità del processo educativo può trovare un “accomodamento” laddove si riconosca, da una parte, la necessità di dati oggettivi da cui partire e, dall’altra, la necessità di una loro “traduzione” che permetta a ciascuno di trovare la propria posizione, non di certo all’interno di una sequenza che va dal “più” al “meno” o viceversa, ma all’interno del mondo: attraverso prove oggettive “intelligenti e ben fatte” è data l’occasione di scoprire quelle attitudini e quelle disposizioni che permetteranno a ogni individuo di prendere parte in modo attivo alla costruzione della propria vita personale e sociale.
Pertanto, laddove la selezione non sia una azione di scarto e la competizione non si risolva nell’eliminazione di una parte, ma siano azioni responsabili di chi si assume il ruolo di accompagnare l’altro nella formazione della sua identità personale e sociale, è possibile combinare misurazione e valutazione in una relazione all’interno della quale la prima è compresa dalla seconda.
Come è possibile questa combinazione? Se esistesse un solo modo, non saremmo più di fronte a un processo educativo, ma a una procedura. La valutazione ha bisogno di misurazioni intelligenti e ben fatte; ma queste misurazioni sono affidate alla capacità di giudizio e agli atti di giudizio di coloro ai quali è affidata la gestione del processo educativo.
La storia sembra procedere con un passo che la distingue in modo netto dal corso naturale. Lontano dal presentarsi come una sequenza scandita da cause che determinano specifici effetti, la storia di volta in volta si articola su due fronti contrastanti, tal volta contraddittori, così chè non è possibile, in anticipo, conoscerne la soluzione. Tale forma è in sé non è né buona né cattiva. È invece la prova della capacità che l’uomo ha di cambiare, trasformandolo, il corso degli eventi. Questa capacità, tuttavia, ne implica necessariamente un’altra, spesso lasciata in ombra: la capacità di giudizio. Senza un adeguato esercizio di questa seconda capacità, l’abbondanza di cambiamenti che propone la prima rischia di ridursi a un’arida opposizione a cui, spesso, segue un conflitto nel quale le parti dimenticano il fine – un buon cambiamento – per ricercare unicamente di prevalere sull’altra.
Ne è un esempio il duplice “impulso” che muove – ancor oggi – la cultura e, inevitabilmente, la scuola che la promuove e l’alimenta: da una parte, l’impulso a estendere la cultura e, dall’altra, l’impulso a ridurla. Si tratta di due tendenze che rispondono a due legittimi bisogni: l’estensione della cultura cerca di dare una forma concreta a quella immagine di giustizia sociale per la quale nessuno può essere escluso dal prendere parte a un processo di formazione e di trasformazione; la riduzione della cultura si misura con la necessità di “mettersi a servizio” specializzandosi per rispondere a specifiche e particolari esigenze.
La “rovina” – che Friederich Nietsche denunciava – sta nell’inseguire uno dei due bisogni, trascurando – più o meno consapevolmente, per comodo o per interesse – di ricomporre l’unità dei due. E la perdita dell’intero non può che causare la rovina, cioè il venir meno dell’identità (personale e sociale) che la cultura – anche e soprattutto attraverso la mediazione della scuola – ha il compito di educare.
Nel conflitto, tanto inutile quanto cieco, delle due tendenze, la seconda ha da tempo preso il sopravvento. Le immediate conseguenze hanno portato una quantità di “informazioni” che ha fatto avanzare, con una accelerazione senza precedenti, la conoscenza e scoprire possibilità prima nemmeno immaginate. Innegabili i vantaggi del prevalere di questa tendenza a “specializzare” la cultura: basta pensare a come sia stata ridisegnata la vita quotidiana in pochissimi decenni e a come stia continuando a trasformarsi accorciando i tempi del cambiamento. Inevitabile, nello stesso tempo, il sorgere di una sensazione di smarrimento in un continuo cambiamento che sembra non misurarsi mai con la “questione generale” della sua direzione.
Se ad agire è solo “una” tendenza, la cultura si dimostra incapace di rispondere pienamente ai bisogni che caratterizzano la vita nella storia. La riduzione che compie la specializzazione esercita le capacità dell’uomo sui particolari, ma se i particolari non fanno parte di un intero diventano frammenti, cioè dati incapaci di rispondere alle questioni generali perché non colti nelle loro implicite possibilità di legare e di dare un senso.
Un pregnante esempio di questa tendenza culturale può essere dato dal modo con cui è sempre più spesso interpretato il servizio del giornalismo. Lontano da quello spirito di ricerca che ne anima (o dovrebbe animarne) la funzione in ragione della verità “generale”, il suo esercizio tende a ridursi alla raccolta di verità “locali” per le quali ciò che conta è scoprire dettagli in più, dettagli che, tal volta, poco o niente servono realmente alla comprensione di quanto accaduto.
Al giornalismo, nonché alla cultura di cui è parte vitale, servirebbe un nuovo corso che, senza abbandonare la ricerca del particolare, riprenda a servire anche quelle questioni generali che, sole, possono dare senso all’impegno e al sacrificio che la professione richiede. Per far questo, occorre rieducare la serietà, la pazienza e la costanza della capacità di giudizio alla quale è affidata la mediazione.
(Sara Nosari)
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