Quando incontro gli insegnanti di liceo, su una cosa, sempre, tutti sono concordi: non abbiamo abbastanza tempo… E chissà se, con simile deprecazione, si accorgono di citare Auerbach: di citare, più precisamente, l’epigrafe premessa da Eric Auerbach a Mimesis, che riproduce il primo verso di un sonetto di Andrew Marvell (1621-1678), e dice “Had we but world enough and time” (Avessimo abbastanza mondo e tempo).
Ma il “non avere tempo”, anziché un limite al quotidiano operare di ogni docente, potrebbe diventare un vantaggio, proprio come è capitato a Auerbach. Il quale, dopo il 1935, espulso dall’Università di Marburg per motivi razziali, si è ritrovato a Istanbul, a insegnare nella Turkish State University: e senza possibilità di accedere a una biblioteca degna di questo nome, almeno nel campo della romanistica, ha scritto Mimesis, un capolavoro di critica letteraria fondato sulla tecnica del “dettaglio luminoso”. Della drastica selezione. Avesse avuto tempo, non lo avrebbe forse scritto. Nessuno di noi, certamente, è grande quanto Auerbach, ma come insegnanti possiamo provare a seguirne l’esempio.
Se anche l’insegnamento richiede una dose di genialità, infatti, questa si risolve, essenzialmente, nella capacità di scegliere, di individuare pagine così forti e incisive che, nella loro essenzialità, valgano come spazio di incontro con la realtà complessa di un’intera opera, di un’intera epoca. Specie oggi, il bravo insegnante non è quello capace di raccontare “tutto”, ma chi, invece, sa selezionare — energicamente — il frammento sintomatico che possa meglio documentare la “verità”. È sempre meno una questione di quantità che di qualità.
All’origine del termine insegnante c’è il sostantivo latino insigne, nel senso di “segnale distintivo”: perché insegnare significa appunto “distinguere con un segno”. A differenza di una spiegazione puramente teorica, l’insegnamento ha una componente modellizzante, cioè metodologica, per cui trasmette, insieme, un contenuto disciplinare e un atteggiamento epistemologico. Il mestiere dell’insegnante di lettere, disse una volta Carlo Dionisotti, consiste essenzialmente in questo: “vedere dei giovani che rappresentano il presente e immettere in questi giovani il passato”. Rendendolo, se possibile, fecondo e vivo, o, meglio ancora, accettabile. Un buon insegnante, dunque, si riconosce per la sua capacità di “vedere” — in primis — chi ha davanti, cogliendo gli interrogativi che ogni generazione, affacciandosi alla vita, porta con sé, e ad essi fornire non risposte facili o a buon mercato, ma lo stimolo, il nutrimento del confronto con il passato.
Ma come fare, per restituire il senso di ciò che è passato? Da un lato, è la prima ipotesi, attraverso l’elaborazione di schemi, teorie, modelli, che poi si possano applicare e far applicare dagli allievi (partendo, per esempio, da una definizione di Umanesimo, o di Ermetismo, se ne può cercare la realizzazione in un corpus testuale più o meno ampio). Oppure, è la seconda ipotesi, attraverso l’incontro immediato con il caso concreto, singolare, specifico e individuale, rifuggendo dalla generalizzazione meta-storica per esaltare il fenomeno come dato.
Le due strade sottintendono due diverse visioni della storia, e della letteratura, e forse anche dell’uomo. Per la sua valenza pedagogica, ossia per la sua capacità di interessare davvero gli studenti, sollecitandone la curiosità, e di rappresentare la verità, Stephen Greenblatt, professor of Humanities a Harvard, è strenuo difensore del metodo – come lo ha chiamato (prendendo a prestito una formula di Ezra Pound) – del dettaglio luminoso. Il particolare magari minore e secondario, di per sé privo di speciale valore estetico, che tuttavia consente di capire dall’interno il significato specifico — la verità e la complessità — di un testo, di un uomo e di un’epoca. Potrebbe essere questo un criterio per orientare le nostre scelte: leggere e analizzare tracce scritte che restituiscano in modo evidente non il riverbero di una teoria, ma “il tocco del reale”.
Se è vero, come spiegano i sociologi, che oggi viviamo immersi in un perpetuo presente, tanto più importante diventa che la scuola si faccia carico di dare ai giovani il gusto del passato, dell’incontro con età remote, e diverse, che — di rimbalzo — aiutino a capire meglio il presente. Capire meglio: cioè, oggettivamente e criticamente. E in tal senso, forse, si potrà usare la storia letteraria: come orizzonte per una serie di incontri, ravvicinati, e perciò umanamente intriganti, con autori, opere e problemi del passato.
Si aprirebbe qui una grande questione, sottesa al lavoro dell’insegnante. Sappiamo bene che ogni museo, visitato con un esperto si anima e si riempie di fascino, di vita: ma quali sono i margini di museificazione dell’insegnamento letterario che, oggi, possiamo ancora permetterci? Possiamo prendere autori come Ariosto o Machiavelli, e affrontarli ricalandoli con determinazione nel tempo che fu loro, oppure li possiamo proiettare nel tempo che è nostro. Di un capolavoro possiamo investigare il significato storico, ovvero — letteralmente — ‘passato’, oppure possiamo interrogare il senso anacronistico, il valore postumo, al di là della consapevolezza del suo stesso autore. Quanto l’efficacia attuale di un testo entra nel dominio di ciò che bisogna comprendere?