Che cosa hanno in comune ricerche scientifiche così lontane nel tempo e nello spazio come quelle descritte in alcuni articoli di questo numero?
Ci riferiamo, in particolare, a quelle condotte da Giovanni Schiaparelli nel pieno del XIX secolo presso l’Osservatorio Astronomico milanese di Brera e a quelle svolte da un gruppo di fisici dell’INFN guidati da Gianpaolo Bellini presso i Laboratori Nazionali del Gran Sasso in un esperimento denominato Borexino, che ha portato all’identificazione dei «geoneutrini» provenienti dalle profondità della Terra. Si tratta di studi rivolti a oggetti ben diversi come natura, come dimensioni e come emergenza fenomenica: dagli sfuggenti e infinitesimi neutrini, ai grandi protagonisti del sistema solare e dei cieli nelle notti serene. Sono ricerche diverse nella strumentazione, nell’organizzazione, nei tempi e nei costi.
Li accomuna però un fattore che è tipico della conoscenza scientifica, ma che ha una valenza ben al di là dei singoli ambiti specialistici per assumere un’importanza decisiva in ogni opera educativa. È quello che si può identificare come il «metodo dell’esperienza». Quell’approccio cioè che pone in primo piano l’esperienza come strada sicura ed efficace per ogni processo conoscitivo. Un metodo che ci consente di sottolineare due aspetti, particolarmente carenti nel clima culturale attuale.
Il primo è ben messo in luce da Pasquale Tucci parlando di Schiaparelli: «Compito dello scienziato è quello di teorizzare, anche in maniera ardita, ma solo sulla base di fatti accertati al di là di ogni ragionevole dubbio. Per questo egli introdusse nello studio e nella descrizione del pianeta Marte una serie di tecniche e di procedure che limitavano al massimo l’arbitrarietà dello scienziato».
È la priorità dei fatti rispetto alle opinioni e alle costruzioni ideologiche; è il valore primario attribuito a ciò che accade e che si rivela a che vive la passione per la conoscenza della realtà, a chi non si rifugia nella scettica schermaglia delle interpretazioni con la conseguenza di rinviare continuamente ogni affermazione certa e di annegare il desiderio di scoperta (tipico dei ragazzi e dei giovani) nella deludente palude del relativismo apparentemente «critico».
Il secondo aspetto, che affiora anche dai resoconti che ci arrivano direttamente dalle scuole, è che l’esperienza è sempre di un «io», di una persona, di ogni singolo protagonista dell’azione conoscitiva. In un grande gruppo come quelli della fisica delle particelle, così come nei piccoli team dei laboratori di biologia molecolare o in una classe di liceo, lavorare insieme è molto efficace, istruttivo e a volte attraente.
Tuttavia nessun risultato «di gruppo» può sostituirsi all’esperienza della persona, al graduale crescere della sua capacità di usare la ragione secondo tutta la sua ampiezza e le sue potenzialità di presa sulla realtà. L’attività sperimentale, se ben condotta, può educare a questo approccio; anche se il metodo dell’esperienza ha una portata e una valenza ben al di là delle ore di laboratorio.
Nelle Indicazioni Nazionali per i nuovi licei si fa riferimento alla dimensione sperimentale e già abbiamo raccolto, accanto ad alcune perplessità, i primi commenti positivi; soprattutto per l’immagine non empiristicamente riduttiva e non puramente operativa che viene data dell’«esperimento».
Ci sarà molto da discutere e dialogare su questi temi nei prossimi mesi. Soprattutto ci sarà da raccogliere, dal vivo di tante esperienze positive di insegnamento tuttora in corso pur tra mille ostacoli e difficoltà, i segni di un auspicato e possibile rinnovamento dell’insegnamento scientifico.
Mario Gargantini
(Direttore della Rivista Emmeciquadro)
© Pubblicato sul n° 39 di Emmeciquadro