Richard Reevs
Una forza della natura
Codice Edizione – Torino 2010
Pagine 144 – €18,00
Secondo la citazione riferita da Freeman Dyson, così avrebbe detto Ernest Rutherford: «Noi siamo come dei bambini, che vogliono sempre fare a pezzi gli oro¬logi per capire come funzionano». I suoi orologi si chiamavano atomi e nel laboratorio di Manchester prima e, nel Cavendish Laboratory di Cambridge dopo, ha trovato il modo di spaccarli aprendo il nuovo mondo delle particelle elementari.
L’anno prossimo cadranno i cent’anni dalla scoperta del nucleo dell’atomo o meglio, dalla pubblicazione nel numero di maggio del Philosophical Magazine dell’articolo di Rutherford The scattering of the Alpha and Beta Rays and the Structure of the Atom, dove timidamente il grande fisico neozelandese descrive gli esperimenti di diffusione (scattering) e parla di una struttura dell’atomo, fino ad allora ritenuto indivisibile, senza enfatizzare più di tanto la sua scoperta.
In realtà la scoperta era stata fatta almeno un anno prima, negli esperimenti da lui condotti a Manchester insieme a Geiger e Marsden: il fenomeno del rimbalzo di alcune particelle alfa sulla lastra ricoperta di solfuro di zinco fosforescente non poteva che portare a ipotizzare la presenza di un nucleo massiccio al centro dell’atomo e i calcoli sviluppati dopo i test confermavano l’ipotesi. Ma la novità era così scon-volgente, per le conseguenze teoriche e pratiche che lasciava intravvedere, che anche «una forza della natura» come Rutherford sentiva il bisogno di essere cauto. Sarà più deciso poi, quando al Cavendish vent’anni dopo, il suo allievo James Chadwick scoprirà il neutrone; nome che peraltro lo stesso Rutherford aveva coniato durante una conferenza nel 1923 ipotizzandone la presenza nel nucleo e spianando la strada all’allievo che riuscirà a precedere in volata i numerosi concorrenti a caccia di particelle subnucleari.
È indubbiamente quella di un genio (un «genio di frontiera» come dice il sottotitolo) la personalità che emerge dalla lettura di questa biografia, che giunge puntuale all’appuntamento del centenario dopo che l’autore ha provato personalmente nel novembre 2005 a rifare l’esperimento come l’aveva eseguito Rutherford.
Un genio per le intuizioni folgoranti, ma soprattutto per la grande abilità nell’immaginare, condurre e valutare un esperimento. La sua è stata una grande eredità metodologica e i suoi laboratori, in particolare il Cavendish, sono stati per i primi trent’anni del secolo scorso il punto di riferimento assoluto per la fisica sperimentale; ma anche teorici come Bohr vi hanno trovato motivi di interesse e grandi stimoli.
Sempre Dyson ha osservato che «Rutherford era superbo come sperimentale mentre Einstein lo era come teorico ma ognuno nutriva un profondo rispetto nei confronti dell’altro. Entrambi avevano capito che lo spirito umano si esprime al meglio quando mani e cervello lavorano insieme». Tra le intuizioni e anticipazioni di Rutherford non è mancata quella relativa alle applicazioni dell’energia atomica; pare che già nel 1903 abbia profetizzato: «Se si potesse trovare un detonatore adatto, è plausibile immaginare che si possa dare origine a un’onda di disintegrazione atomica attraverso la materia, capace davvero di ridurre questo vecchio mondo in fumo».
Il testo sottolinea anche l’importanza di un ambiente favorevole e di un clima adatto a stimolare la crescita della conoscenza; un ambiente che ha influito su Rutherford e che in parte lui stesso ha contribuito a creare; come osserva C. P. Snow: «Vivendo a Cambridge non si poteva non respirare l’entusiasmo sul piano umano, oltre che su quello intellettuale. […] Il tono della scienza era il tono di Rutherford: borioso e magniloquente […] sicuro di sé, originale, generoso, polemico, liberale e pieno di speranza».
È stato un maestro per molti e una delle conferme della sua opera educativa può essere vista nel fatto che ben undici dei «ragazzi» che hanno lavorato nei suoi laboratori han¬no conquistato il premio Nobel.
Recensione di Mario Gargantini
(Direttore della Rivista Emmeciquadro)
© Pubblicato sul n° 40 di Emmeciquadro