Lo sguardo. Quello di Vasco Rossi quando è sul palco insieme a Enzo Jannacci invitato a cantare con lui nella trasmissione televisiva condotta dal musicista e medico milanese nel 1983. Era l’anno in cui il futuro re degli stadi si era classificato ultimo a Sanremo con Vita spericolata e lo stesso Vasco Rossi dice che “ero un reietto, nessuno mi voleva, ero messo in un angolo e lui mi invitò”. Era il periodo in cui Vasco Rossi sprofondava nelle sostanze tossiche, un perdente, un emarginato, un balordo.
Era ovvio, come legge sempre Vasco nella lettera che Jannacci gli scrisse allora, che il cantautore milanese fosse stato colpito da questo uomo, “ho colto nei tuoi occhi la luce della verità”. Lo sguardo di Vasco Rossi mentre Jannacci lo introduce al pubblico televisivo è colmo di stupore, di gratitudine infinita, di amore e vale tutto il film, il bellissimo film di Giorgio Verdelli Enzo Jannacci – Vengo anch’io nelle sale per soli tre giorni, l’ultimo oggi. Perché Jannacci, ed è quello che emerge da questo film, sapeva cogliere la bellezza nel cuore di ogni persona che incontrava o vedeva per strada, o sul tram: trapassava i nostri stupidi schemi di sopravvivenza egoistica, andava oltre, mirava all’essenza della vita. È una dote rara, rarissima, che si trova soprattutto in quelle persone che dedicano la vita all’arte, la musica nel suo caso. Ma non solo, perché Jannacci, benché nel film lo si dica poco, era anche un medico: “Quando andai a lavorare in America mi dissero, Jannacci lei non va bene per questo lavoro, perché lei si affeziona troppo ai pazienti”. Già, tutto qui: Jannacci non andava bene per il mondo perché lui amava il prossimo e gente così nella società del consumismo sfrenato che consuma anche gli esseri umani non va bene.
C’è un tram a inizio film dove siede Roberto Vecchioni e dove dopo salirà il figlio Paolo, che attraversa Milano: “Il tram è la metafora della vita” dice il cantautore di Samarcanda “c’è chi sale, si mischia agli altri e scende al capolinea, è come il mondo, gira in tondo, tanti entrano e tanti escono, come sul pianeta tanti nascono e tanti muoiono e ci sono sempre persone diverse”. È uno dei simboli di Milano, uno di quei simboli che Jannacci fece suo al punto da coglierne in maniera sublime la connessione con le nostre povere vite: “L’avvenire è un buco nero in fondo al tram”. “Ho sempre considerato Enzo l’unico grande genio musicale della canzone che abbiamo avuto in Italia. Perché, guardate bene, gente grandissima come Guccini o De André rimane comunque su un cliché scontato, cultura e nobiltà della parola, che ha usato in modo eccelso. Invece Enzo fa ciò che non ti aspetti mai, sia nell’umorismo pirandelliano, quello dell’inaspettato, sia nel tragico. Partiva in un modo e tu non sapevi mai dove arrivava e che cosa voleva dire. Però alla fine ti rimaneva qualcosa dentro” dice ancora Vecchioni.
Il film si dipana così: canovaccio è una intervista inedita dello stesso Verdelli che risale al 2005 in cui Jannacci si racconta, alla sua maniera, con il suo parlato quasi indecifrabile, e le testimonianze di chi condivise con lui palcoscenici, teatrini scalcinati come il Derby, avventure in Germania degne delle migliori saghe del rock’n’roll finite sul marciapiedi senza soldi alla caccia di Elvis Presley. Ci sono tutti, e sono tutti pieni di commozione e amore nei suoi confronti: Abatantuono, Dario Fo, Dori Ghezzi, Giorgio Gaber, Cochi e Renato (ma nel film parla solo Cochi Ponzoni, Renato no; e non c’è neanche Celentano di cui il giovanissimo Jannacci era chitarrista e pianista ai tempi degli esordi rock), Massimo Boldi, un commosso e commovente Paolo Rossi, Claudio Bisio, Fabio Treves, Elio. Si raccontano aneddoti, episodi esilaranti come quando, dice Rossi, “Era primo in classifica a Canzonissima con Vengo anch’io, no tu no e la settimana dopo si ripresenta con Gli zingari. Chiaramente crollò arrivando penultimo. Mi disse: “Nemmeno ultimo, penultimo”. Però si vedeva che la cosa l’aveva fatto godere molto”.
E naturalmente c’è uno sfracello di canzoni memorabili e irraggiungibili, da lacrime, come Vincenzina e la fabbrica cantata al pianoforte in una apparizione televisiva con Monica Vitti seduta ai suoi piedi in lacrime. Ci sono le prime apparizioni televisive e quelle degli ultimi anni davanti alle grandi folle, quando Jannacci era finalmente in grado di maneggiare con una classe immensa il suo difficile repertorio, difficile anche per se stesso, coadiuvato dal bravissimo figlio Paolo.
Già, c’è Paolo che racconta di come un artista oltre alla bellezza viva in un inferno, il prezzo che bisogna pagare per osare avvicinarsi a quella bellezza. Cose non scontate, che annullano quella patina di imbecillità di cui oggi il mondo dello spettacolo è imbevuto, perché la vita di chi crea arte è una vita dura e piena di contraddizioni, non di selfie stupidi sui social. Lo spiega bene ancora una volta Paolo Rossi, quello che di tutti appare il più ferito per la sua mancanza: “Ora tutti dicono che era un genio, un classico quando muori e diventi inoffensivo, ma sono gli stessi che prima dicevano che era troppo inaffidabile, fuori dagli schemi, incontrollabile. Persino pericoloso. Da vivo, quando la comicità televisiva si è appiattita su livelli impossibili, gli han pure dato del vecchio: come dice Frassica, quello che lui diceva prima non è attuale nel nostro presente, è già futuro”.
Una vita esagerata la sua, perché lui amava la vita in modo esagerato: “Meglio un fiasco trionfale che un successo sobrio”. Una vita contagiosa, la sua, come sottolinea Giorgio Vittadini Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, davanti alle mura di Casa Jannacci, quel centro di accoglienza per ultimi e barboni, il più grande d’Europa che Milano ha dedicato a lui: “È il cantautore della dignità e dell’accoglienza”. “Si chiama Scarp del tennis” dice Jannacci “non scarpò da tennis o scarpò di tennis, perché dentro c’è un mondo”.
Lui amava la realtà, tutta intera, la realtà giusta e ingiusta, dritta e storta, dolce e amara ed è per questo che tutti gli vogliono bene.
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