“Usare arma”: è l’angosciante traduzione che Louise Bank, la linguista-eroina di Arrival, rivela al Pentagono nel suo lavoro di interpretazione della lingua aliena degli “Eptapodi” Tom e Jerry. E, naturalmente, di fronte a quelle due parole agghiaccianti, l’esercito si prepara ad un attacco. Ma il film rivela che l'”arma” cui alludono gli alieni è l’arma della conoscenza, che vogliono offrire alla razza umana per ottenerne l’aiuto.
Si chiama Donald l’alieno con cui la razza umana, e precisamente la sottorazza giornalistica, si trova a trattare dal 20 gennaio scorso. Oggi, terzo lunedì di febbraio, cade in America il “Presidents’ Day”, una festività istituita nel 1880 per commemorare il compleanno di George Washington, che mai come quest’anno arriva in un momento convulso e polemico nella storia americana.
L’alieno Donald Trump parla una lingua che alla metà degli Stati Uniti risulta peggio che incomprensibile: odiosa. Quel che si tratta di capire è se quei suoni gutturali che il biondone di Washington emette corrispondano davvero al carico di minacce, ingiurie e invettive che sembrano contenere o se sono, semplicemente, un modo anticonvenzionale e ostico, per le orecchie dei “linguisti mediatici” chiamati a tradurle, di dire cose inoffensive o addirittura apprezzabili.
Le registrazioni della prima conferenza stampa “senza rete” organizzata qualche giorno fa da Trump alla Casa Bianca confermano che è in atto un dramma dell’incomunicabilità tra il presidente e i cronisti, che certamente il magnate non fa nulla per risolvere ma che anche i cronisti accentuano con un carico di astio e di prevenzione degno di miglior causa.
Un esempio per tutti. April Ryan, una giornalista radiofonica, chiede al presidente se pensa di sensibilizzare il gruppo interparlamentare dei deputati afroamericani nei suoi promessi sforzi per ridurre le violenze nelle città. Lui anziché rispondere, mellifluo e convenzionale come avrebbe fatto chiunque altro, con un semplice e sorridente “certamente sì”, replica provocatoriamente: “Sai che ti dico, vuoi organizzare tu un incontro? Vuoi pensarci tu? Avanti, su, fissa un incontro. Avanti. Fissa un incontro. Sarei contento di incontrare i parlamentari neri. Sono fantastici i parlamentari neri, penso che siano fantastici”. Scandalo e sconcerto per la provocazione, indifferenza per quel che, nel merito, ha detto Trump, e cioè che considera “fantastici” i deputati di colore.
Ma il peggio è stato all’inizio, quando Trump ha definito “fuori controllo” la stampa Usa nei toni che adotta quando parla di lui, riferendosi ovviamente ai grandi giornali, in particolare quelli della East Coast, dal New York Times al Washington Post. “Fuori controllo” è un’espressione imprudente e a sua volta provocatoria, che sembra fatta apposta per suscitare una reazione rabbiosa: come sarebbe “fuori controllo”? A quale controllo allude, quale censura invoca, “The Donald”?
Sono espressioni che a noi italiani fanno subito venire in mente le analoghe gaffe di Silvio Berlusconi, dall'”editto bulgaro” contro Michele Santoro, Enzo Biagi e Daniele Luttazzi al gesto del mitra fatto dal Cavaliere, durante una conferenza stampa congiunta col leader russo Vladimir Putin contro una giornalista russa “rea” di aver chiesto al suo presidente se fossero vere le voci di un suo divorzio… Ma è pur vero che le critiche preconcette, o almeno fondate soprattutto sulle parole di Trump più che sui fatti, sono state e sono quotidianamente pesantissime, come se per la prima volta la stampa non accettasse la sua elezione, contravvenendo alla vecchia regola americana per la quale, a elezioni concluse, “right or wrong, it’s my President”.
Al di là delle polemiche ci sono i fatti: per esempio che 1000 chilometri di muro al confine Usa-Messico esistono già, sui 3000 di estensione totale, e li fece costruire Bill Clinton, nel ’94, con una legge successivamente ri-approvata durante il governo Bush, votata anche da Hillary Clinton, e ulteriori lavori al muro furono condotti durante la presidenza Obama. Dunque Trump si è finora limitato soltanto a “dire di voler fare” una cosa che Bill Clinton e Barack Obama hanno invece già fatto, con la benedizione di Hillary Clinton: eppure passa per essere solo lui un brutale razzista.
Sui rapporti con la Russia, ancora, Trump ha detto che contro l’asserita nave-spia appostata da Putin al largo delle coste del Connecticut lui farebbe bene a lanciare un missile, e tutti gli darebbero ragione, ma sarebbe un gesto sbagliato e pericoloso, perché è molto meglio per tutti, per la pace nel mondo, se le due principali potenze nucleari, Usa e Russia, riescono a mantenersi in buoni rapporti: ebbene, cosa c’è di aggressivo e violento nel merito di questa dichiarazione, a parte l’uso inutilmente disinibito dell’immagine di un missile contro la nave?
Per non parlare di un’altra domanda dal contenuto francamente surreale, quella di un cronista che ha chiesto a Trump se non riteneva di avere nel proprio staff persone anti-semite e lui si è inalberato, togliendogli la parola: è stato inurbano, certo, ma ha ragione a ricordare il grande sostegno che il leader israeliano Benjamin Netanyahu gli ha manifestato fin dal primo giorno della vittoria elettorale e poi nel giorno dell’insediamento proprio perché lo considera un forte alleato di Israele. E dunque, è il pensiero di Trump, com’è possibile considerarlo antisemita? Non c’è che dire: sul punto, ha ragione lui.
Ci vorrebbe una Louise Bank per far dialogare l’alieno Donald col mondo dei media. Ma fin quando il miracolo non si compirà, sarà meglio stare ai fatti, osservare i fatti e giudicare solo da quelli l’operato del nuovo inquilino della Casa Bianca. Buon “Presidents’ Day”!