SCENARI/ I rischi del lieto fine che manca alle guerre degli Usa
Dall’11 settembre 2001 in poi, dall’attacco all’Afghanistan fino all’Iraq, le guerre americane sono riuscite nel “regime change”, ma non nel “nation building”. CARL LARKY

L’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 è stato un evento orribile, che ha scioccato non solo gli Stati Uniti ma il mondo intero. Un evento con caratteristiche eccezionali, innanzitutto per il numero di vittime: nessun attentato terroristico aveva causato migliaia di morti in una sola occasione. Eccezionali anche le modalità dell’attacco, che hanno fatto da subito sorgere polemiche, fino a far ipotizzare ad alcuni quantomeno complicità di una parte dell’apparato statale. A parte queste ipotesi estreme, l’attacco ha tuttavia mostrato una vulnerabilità insospettata del più potente Stato del mondo.
Le dinamiche dell’attacco alle Torri Gemelle sono tali da farlo considerare un vero e proprio atto di guerra, più che un attentato terroristico. In effetti, una conferma di questo giudizio viene dall’immediata invocazione — il 12 settembre 2001 — dell’articolo 5 del Trattato di Washington, atto costitutivo della Nato. E’ la prima e unica volta in cui si è ricorsi a questo articolo, secondo il quale “un attacco armato contro una o più di esse (parti dell’Organizzazione, ndr) in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti”. Di conseguenza la parte attaccata verrà assistita “intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale”.
L’11 settembre rappresenta per gli Stati Uniti un evento di natura epocale: per la prima volta un atto di guerra è stato portato sul territorio nazionale. Nelle due guerre mondiali gli americani hanno dato un tremendo contributo di sangue, ma la guerra si è sempre combattuta al di fuori del loro territorio. In quel settembre, l’attacco è avvenuto nel cuore degli Stati Uniti e contro uno dei simboli della loro grandezza. In piena Pax Americana — così almeno pensavano si potesse definire il periodo post guerra fredda — gli Stati Uniti si sono trovati in guerra e per la prima volta sul loro territorio. L’11 settembre è la data da cui, secondo molti osservatori, inizia la decadenza della supremazia americana sul mondo.
Nel 2001 la reazione americana è stata immediata e ha avuto come obiettivo l’Afghanistan nel tentativo di distruggere al Qaeda, un’operazione difficilmente definibile come un successo. Ci sono voluti ben 10 anni di presenza nel Paese delle truppe statunitensi e Nato per arrivare ad eliminare Osama bin Laden e, dopo quasi 16 anni, la guerra continua con i talebani ancora all’attacco. Una vicenda che ricorda dolorosamente agli americani l’avventura afghana dell’Urss, quei dieci anni di guerra dal 1979 al 1989 che portarono alla ritirata dell’Armata Rossa e che furono una delle cause del collasso sovietico.
Anche la successiva guerra, l’invasione dell’Iraq nel 2003, difficilmente può essere giudicata positivamente: se il regime change ha raggiunto il suo fine, l’abbattimento di Saddam Hussein, il nation building, la successiva costruzione di un sistema democratico, si è dimostrato fallimentare. Le differenze religiose ed etniche già esistenti non sono state ricomposte, anzi, e il sorgere dell’Isis, anche in parte a causa degli errori di gestione del dopoguerra, ha prolungato la guerra fini ai nostri giorni. Lo stesso giudizio può essere dato sull’intervento in Siria, dove non si è neppure raggiunto l’obiettivo del regime change e Assad è ormai un interlocutore indispensabile al raggiungimento di un accordo.
Per quanto possano essere considerati condannabili, il regime dei talebani (riconosciuto a suo tempo da alleati degli Usa come Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti), quello di Hussein o di Assad non erano responsabili dell’attacco dell’11/9, alla base dell’applicazione dell’articolo 5. Tuttavia, regime change e nation building sono due pilastri della missione di cui si sentono investiti gli Stati Uniti e se il primo può essere raggiunto, pur con gravi costi per i popoli coinvolti, grazie alla potenza militare americana, il secondo si dimostra in gran parte inattuabile. Almeno al di fuori di quelle nazioni e di quei Paesi che si rifanno alla tradizione europea e alla sua derivata, quella americana.
La storia degli ultimi vent’anni dimostra come società che si rifanno a tradizioni culturali molto diverse, a sistemi statuali basati su principi distanti, come quelli puramente religiosi o tribali, difficilmente sono disposte ad accettare l’imposizione dei modelli occidentali. Un concreto e duraturo nation building può solo essere un processo, lungo e non facile, di collaborazione, di reciproche concessioni e di coinvolgimento dei popoli interessati: una strada che non sembra essere ben accetta a quella parte degli americani che vorrebbe che gli Stati Uniti fossero i tutori del mondo.
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