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Home » Esteri » Medio Oriente » CAOS SIRIA/ Il ruolo di Assad nel vertice di Helsinki fra Trump e Putin

  • Medio Oriente
  • Esteri

CAOS SIRIA/ Il ruolo di Assad nel vertice di Helsinki fra Trump e Putin

Patrizio Ricci
Pubblicato 9 Luglio 2018
siria_guerra_11_lapresse_2018

Bombardamenti alla periferia di Damasco (LaPresse)

L'incontro di questa settimana tra Netanyahu e Putin a Mosca sarà decisivo per l'esito del summit di Helsinki Putin-Trump, che vorrebbe lasciare la Siria entro 6 mesi. PATRIZIO RICCI

Sabato è stata concordata una tregua con il Comando generale operativo congiunto dell’opposizione nel sud della Siria. L’agenzia stampa russa Ria Novosti riferisce che i militanti consegneranno armi pesanti e potranno essere portati a Idlib. Il cessate il fuoco sarà propedeutico ai negoziati che, nei prossimi giorni, perfezioneranno la resa dei ribelli su tutto il fronte meridionale. 


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Poco prima dell’accordo l’esercito siriano (Saa), coadiuvato dalle forze armate russe, aveva riconquistato l’autostrada M5 e il valico giordano di Nassib. Ora grazie all’intesa, Saa proseguirà a riprendere gradatamente tutto il confine siro-giordano. Un punto dell’accordo prevede che sia il valico di Daara-Ramtha che quello di Nassib-Jaber siano supervisionati dalla polizia militare russa.


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La tregua naturalmente non comprende la sacca detenuta dallo stato islamico, al confine con Israele. Per ora resta esclusa dall’intesa anche la provincia di Quneitra, dove il fronte è ancora attivato. 

La richiesta di tregua giunge quando la coalizione anti-governativa (Free Syrian Army, Fsa) si è progressivamente sgretolata: nella maggior parte degli insediamenti, singole milizie hanno accettato autonomamente la riconciliazione con lo Stato siriano, senza aspettare le decisioni del proprio comando unificato che fino ad oggi (per ben tre volte) ha prima promesso la resa e poi ha fatto marcia indietro. E’ proprio questo atteggiamento ondivago che ha fatto decidere molte milizie locali a patteggiare autonomamente la propria posizione, coscienti che il tempo che passava non avrebbe migliorato le condizioni di resa.


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In questo contesto, determinante è stato il lavoro facilitatore del gruppo di contatto russo-siriano che ha offerto ai miliziani la possibilità di beneficiare dell’amnistia insieme alla possibilità del ritorno alla vita civile (o in alternativa, di chiedere l’inquadramento nell’esercito siriano).

Proporre un cammino di riconciliazione con lo Stato siriano ha permesso di evitare ulteriori distruzioni, lutti e divisioni ed ha riscosso il plauso della popolazione, ormai sfinita per la guerra. D’altra parte, la scarsa fiducia nutrita dalla gente verso il Fsa si è manifestata chiaramente in molte occasioni, quando la stessa popolazione civile ha fatto pressioni affinché le milizie locali deponessero le armi ed accettassero la riconciliazione. Queste circostanze hanno reso possibile la consegna a Saa di ingenti quantitativi di armi senza combattere, compresi i sistemi di armi anticarro americani Tow 2, Milan ed i temutissimi missili anticarro francesi Apilas, oltre a numerosi veicoli corazzati e carri armati. 

Resta però inteso che senza le trattative preventivamente intercorse tra americani, israeliani e russi ad Amman, gli attuali successi delle forze siriane e degli alleati probabilmente sarebbero stati ostacolati dall’intervento militare americano e israeliano. Invece, l’accordo di massima preventivamente conseguito tra Usa, Giordania, Israele e Russia ha consentito all’esercito siriano di condurre la campagna nella Siria meridionale senza particolari remore di aggressioni esterne. Tale accordo sarà ulteriormente perfezionato questa settimana nell’incontro tra Netanyahu e Putin a Mosca. Se ci sarà una buona intesa, essa favorirà non poco il successivo incontro tra il premier russo e Trump che avverrà ad Helsinki il 16 di questo mese.

Da parte sua, Trump vuole migliorare le relazioni con la Russia e sta cercando di convincere il suo establishment ad accettare la sua intenzione di ritirare le forze statunitensi dalla Siria. Il tentativo è assai pragmatico: l’orientamento generale dell’establishment Usa è infatti che il pericolo non sia più Assad ma l’Iran. Inoltre, ormai Damasco ha ripreso il controllo della maggior parte del paese e si manifestano crescenti segnali di insofferenza da parte della popolazione nei confronti delle forze statunitensi, percepite come forze di occupazione e giudicate colluse con i terroristi. 

Secondo indiscrezioni, il presidente americano chiederà a Putin di garantire l’allentamento della presenza iraniana in Siria e la costituzione di una zona cuscinetto di 50 km lungo il confine israeliano in cui la presenza di forze di Teheran sarà vietata. In cambio — se le garanzie saranno sufficienti — le forze statunitensi, nel giro di 6 mesi, si impegnerebbero a lasciare la Siria.

Per prepararsi a quello che dovrebbe essere il nuovo scenario, la leadership curda al vertice delle Syrian Democratic Forces (Sdf) supportate dagli Usa a nord dell’Eufrate ha voluto giocare d’anticipo: da circa due settimane emissari curdi stanno portando avanti trattative con Damasco affinché le forze dell’Sdf — pur permanendo come forze locali a nord della Siria — siano integrate nell’esercito siriano. Tra le richieste dei curdi c’è anche il riconoscimento di una regione autonoma (Royava) dove la presenza curda è maggioritaria. Inoltre, una ulteriore richiesta è che parte dei profitti della regione petrolifera (ora in mano ad Sdf), rimangano a disposizione della regione curda. E’ anche richiesto che le forze siriane si posizionino ai confini con la Turchia, per evitare incidenti con Ankara.

Visto che i problemi non provengono dalla società civile siriana ma dall’esterno, l’incontro tra Trump e Putin sarà decisivo per la pace in Siria, naturalmente a patto che altri non effettuino colpi di coda per rovinare tutto. 

In questo senso, è curioso che mentre gli Stati Uniti cercano di riposizionarsi, l’Onu, la Gran Bretagna e l’Unione Europea rimangono ancora impantanate nelle proprie posizioni anti-Assad, che avevano inopinatamente abbracciato sotto pressione degli Stati Uniti.


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