EX ILVA/ I veri ostacoli per il rilancio di Taranto non chiari ai sindacati

- Federico Pirro

La situazione dell'ex Ilva di Taranto è piuttosto complicata e non dipende da errori di gestione da parte della proprietà

Ex Ilva di Taranto Ex Ilva di Taranto (LaPresse)

Mercoledì scorso si è svolto a palazzo Chigi, presieduto dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Mantovano, alla presenza dei Ministri Urso, Fitto e Calderone, l’incontro richiesto con urgenza dai sindacati dei metalmeccanici per discutere della situazione all’interno del Siderurgico di Taranto e chiedere al Governo di procedere rapidamente al riassetto societario di Acciaierie d’Italia, definendone il nuovo piano industriale con l’avvio della decarbonizzazione.

L’incontro, che era stato subito accordato ai richiedenti, secondo i dirigenti sindacali è stato però deludente, perché gli esponenti dell’Esecutivo – dopo aver ascoltato quanto riferito sullo stato odierno dello stabilimento e sulle crescenti difficoltà del suo esercizio – hanno fatto chiaramente intendere che è aperta un’interlocuzione con Arcelor Mittal, azionista di maggioranza di Adi con il 62% – a fronte del 38% di Invitalia che però ha parità di voto in Consiglio di amministrazione – per verificare la possibilità (e la reciproca convenienza) di un rilancio del Gruppo e della fabbrica ionica, anche alla luce delle risorse che potrebbero essere attinte, previo accordo (tutto ancora) da definire con la Ue, dall’Fsc, dal RepowerEU e dal Just Transition Fund.

I sindacati ormai da tempo chiedono con insistenza – che ormai a Taranto tracima nel pubblico dileggio della Ceo di Adi Lucia Morselli, attaccata con veemenza e pesanti accuse di cattiva gestione mediante l’affissione di grandi manifesti recanti la sua immagine, con i quali nei giorni scorsi è stata tappezzata la città – il passaggio di Invitalia in maggioranza nella compagine societaria, la rottura di ogni rapporto con Arcelor, da sostituirsi con altro azionista, e ovviamente la “cacciata” (testuale) della Morselli.

Certo, la situazione in fabbrica diviene ogni giorno più pesante: sistematico ricorso alla Cig, bassa produzione con solo 2 altiforni in esercizio – ben al di sotto di quanto previsto all’inizio dell’anno – ridotte manutenzioni, prolungati ritardi nei pagamenti delle imprese dell’indotto e delle forniture di gas, estrema difficoltà nell’acquisto delle materie prime.

Ma questa situazione – che indubbiamente colpisce dolorosamente addetti diretti e dell’indotto non solo a Taranto, ma anche negli altri siti del Gruppo – non è ascrivibile a una gestione dissennata e in qualche modo proterva del massimo vertice aziendale – come invece affermano rabbiosamente i sindacalisti esasperati -, ma è dovuta in primo luogo alla mancanza di liquidità della società, dal momento che essa, come ha ricordato anche il Presidente Bernabè nei giorni scorsi, non è bancabile, ovvero lavora solo “per cassa” con i ricavi delle vendite, non ricevendo credito per il circolante da alcun istituto di credito.

E come potrebbe riceverlo se Adi non possiede gli impianti che gestisce in locazione, impianti tuttora di proprietà dell’Amministrazione straordinaria, e pertanto non conferibili in garanzia alle banche per l’apertura di linee di credito? E inoltre come si può dimenticare che l’area a caldo del Siderurgico ionico è stata da anni sotto sequestro giudiziario con facoltà d’uso, e che sull’intero compendio impiantistico pende ipotesi di confisca, dopo quanto statuito nella sentenza (ancora di primo grado però) del processo “Ambiente svenduto” con cui sono state comminate condanne pesantissime nei confronti della vecchia proprietà della famiglia Riva, di vecchi manager dello stabilimento, di uomini politici ed ex dirigenti della Regione?

Pertanto, se questa è stata la condizione in cui versava ormai da lungo tempo l’assetto proprietario della grande fabbrica, chi mai avrebbe potuto acquistare un bene il cui pieno possesso sarebbe stato inficiato da così cogenti limitazioni? E di conseguenza, chi avrebbe potuto investire in una società come Adi che gestisce beni non posseduti e in parte sotto sequestro e a rischio di confisca?

Allora è stato merito del Ministro Fitto quello di presentare in Parlamento un emendamento al Decreto legge antinfrazioni Ue, con il quale si è stabilito fra l’altro che lo stabilimento è un bene vendibile anche se sotto sequestro, o eventualmente confiscabile se passasse in giudicato la sentenza del processo “Ambiente svenduto”. Emendamento approvato in sede di conversione con tutto il Decreto.

A questo punto allora cade ogni alibi, peraltro comprensibile, di Arcelor Mittal che, non lo si dimentichi mai, aveva già acquistato l’intero gruppo all’esito di una gara pubblica, ma che si era visto costretto a recedere dal possesso del bene a seguito della rimozione dello scudo penale per i dirigenti subentrati nella direzione della fabbrica, voluta dal Governo Conte I e dall’allora Ministro Luigi Di Maio.

Se Arcelor Mittal volesse rientrare in gioco “riconsolidando” nel bilancio del suo gruppo la società Adi Holding che controlla Adi con l’impianto di Taranto – che invece aveva posto fuori dal perimetro della sua holding senza di conseguenza erogare più prestiti pro quota all’ex controllata – allora dovrà dichiararlo in atti formali, e così si potrà procedere all’acquisto del compendio impiantistico, al riassetto complessivo della società, al suo rafforzamento patrimoniale e finanziario, e al nuovo ambizioso piano industriale che prevederebbe investimenti massicci, non inferiori a oggi a 5-6 miliardi, con il rifacimento dell’AfO5, l’introduzione di 2 forni elettrici e l’impiego del preridotto di ferro, da prodursi in un impianto da costruirsi già da quest’anno con risorse però ancora da reperire.

Qualora invece Arcelor Mittal ritenesse di non addivenire a un nuovo accordo con Invitalia potrebbe cederle le sue quote offrendogliele in prelazione: Invitalia – che peraltro per acquistarle al valore odierno dovrebbe intanto disporre della liquidità necessaria anche se il pagamento avvenisse ratealmente – potrebbe poi rivenderle ad altro azionista – da reperire con nuova gara pubblica? – sul quale nuovo compratore, da quanto trapela da chi conosce gli attuali patti parasociali con Arcelor, quest’ultimo comunque dovrebbe esprimere il suo gradimento.

Insomma, non è affatto facile come semplicisticamente chiedono i sindacati estromettere Arcelor dalla società che attualmente gestisce gli impianti candidandosi ad acquistarli. E allora, in questo scenario estremamente complesso, si dovrebbe invece dare atto alla Morselli e al top management del sito ionico dei veri e propri miracoli che stanno compiendo, lavorando solo “per cassa”, tenendo in linea di galleggiamento lo stabilimento e tutto il gruppo, ai cui dipendenti comunque si continua a garantire il salario e ai cui clienti si assicura il soddisfacimento delle commesse, sia pure con tutte le difficoltà intuibili: senza dimenticare (mai) gli investimenti già realizzati e in corso di ambientalizzazione della fabbrica, imposti dall’Aia e verificati periodicamente da Ispra e Arpa Puglia.

Allora, è chiaro tecnicamente e giuridicamente tutto questo a chi ha tappezzato la città di Taranto con manifesti 6X3 contro la Morselli? Insomma, è mai possibile che sindacalisti che dovrebbero richiamarsi alle grandi tradizioni di Giuseppe Di Vittorio e di Giulio Pastore commettano un errore così grave e riprovevole? L’esasperazione degli operai di Adi e delle imprese dell’indotto è certamente comprensibile – e chi scrive è loro vicino da sempre -, ma la situazione per la sua estrema complessità impone, piaccia o non piaccia, fiato lungo, sangue freddo e nervi molto saldi. Soprattutto ai sindacalisti.

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