La Cina è in grado di falsificare studi scientifici. È la rivelazione del Financial Times, che in un lungo articolo ha avuto modo di discutere con John Chesebro, il cui lavoro è individuare le truffe nell’editoria biomedica. Falsificare uno studio scientifico può essere piuttosto facile, a partire dalle immagini. Le stesse fotografie di colture possono essere duplicate su studi molto diversi, oppure ruotate o ancora manipolate in digitale in modo da farle sembrare – a un occhio inesperto – immagini nuove di zecca.
Negli ultimi vent’anni, i ricercatori cinesi sono diventati incredibilmente prolifici per quanto riguarda la produzione di ricerche scientifiche: secondo i dati dello statunitense Institute for Scientific Information, nel 2021 la Cina ha prodotto 3,7 milioni di articoli, cioè il 23% della produzione globale, secondi solo ai 4,4 milioni di articoli degli Stati Uniti. Nel 2022, la Cina ha superato la prima volta gli USA nel numero di documenti più citati, pur tenendo conto delle citazioni alla ricerca cinese che per prima ha sequenziato il genoma del Covid. Questa impennata ha destato preoccupazione nell’Occidente, dati i progressi di Pechino in numerosi ambiti dalla tecnologia quantistica ai test missilistici. Sembra però che questa sia in parte apparenza, che nasconde una inefficienza sistemica e un gran numero di ricerche fraudolente.
Frode ricerche scientifiche in Cina: “somigliano a documenti veri, giro d’affari…”
Per sopravvivere nel mondo accademico cinese “dobbiamo concentrarci sulla quantità anziché sulla qualità” ha ammesso un docente di fisica in un’importante università di Pechino, sentito dal Financial Times. Un fenomeno che ha costretto molti editori a mettersi al riparo dalle frodi e dai falsi studi scientifici. Per quanto ci si possa sforzare, però, è impossibile individuare tutte le false ricerche, in un fenomeno che minaccia l’intero settore. Per giunta, ritirare uno studio scientifico è un processo che può richiedere diversi anni e nel frattempo gli scienziati potrebbero continuare a basare i propri studi su documenti in realtà falsi. In particolare nella sfera biomedica, si tratta di una prospettiva molto pericolosa.
David Bimler, uno psicologo precedentemente attivo alla Massey University in Nuova Zelanda, ha identificato 150 documenti biomedici dell’Università di Jilin, che utilizzava gli stessi, scarsi set di dati e ha quindi concluso che l’ente disponeva di una cartiera interna. L’Università di Jilin era già stata citata da altri due esperti intervenuti al Financial Times come principale fonte di false ricerche, ma al momento l’ente non ha rilasciato dichiarazioni. Queste “cartiere” di cui si sospetta l’esistenza in Cina sono realtà “orientate al profitto, non ufficiali e potenzialmente illegali – si legge sul Financial Times – che producono e vendono manoscritti fraudolenti che somigliano a una vera ricerca scientifica”. Un fenomeno che potrebbe coinvolgere dal 2% al 20% dei documenti pubblicati, per un fatturato minimo stimato in 1 miliardo all’anno ma forse di molto superiore.