Il film "Final Destination: Bloodlines", sesto episodio della serie horror, comunica una mancanza di speranza totale
Nell’epoca degli universi condivisi, delle narrazioni che si espandono, di seguiti e predecessori che si intrecciano continuamente, fa quasi piacere, un piacere un po’ nostalgico, vedere un film che invece entra dentro una serie senza troppo fare caso a ciò che è accaduto prima o dopo, come fosse una continua ripartenza, una costante variazione sul tema.
Final Destination: Bloodlines, sesto episodio della serie horror, lascia i riferimenti al resto della serie a uso esclusivo dei patiti e consente agli spettatori di godersi la solita sarabanda lungo i modi sempre più elaborati con cui la morte cerca di uccidere chi tenta di sfuggirle.
Stavolta tocca a Stefani (Kaitlyn Santa Juana), una ragazza che da un po’ di tempo fa sempre lo stesso sogno: una festa di fidanzamento che finisce con tutti morti, lei compresa. Scoprirà che quel sogno fu la premonizione che permise alla nonna, 50 anni prima, di scampare alla morte, cercando di salvare la famiglia con ogni mezzo possibile. E ora, è arrivato il momento di cedere l’eredità e i segreti sulla Morte.
Jon Watts, Guy Busick e Lori Evans Taylor affidano il loro copione ai registi Zach Lipovsky e Adam Stein per realizzare un capitolo che, pur nella fedeltà agli stilemi dei film precedenti (non c’è un vero cattivo, la Morte non è identificabile, gli “omicidi” devono avvenire con reazioni a catena degne dei cartoni animati), si avvicina al pubblico contemporaneo prendendo consapevolezza di 14 anni trascorsi dal precedente capitolo e impostando una struttura tipica su un canovaccio invece in linea coi tempi.
Lontano dalle questioni politiche, Final Destination: Bloodlines immerge tutta la sua sua linea narrativa in un concetto molto caro al cinema mainstream hollywoodiano dei franchise, ovvero il passaggio di consegne, la trasmissione di un retaggio che possa illuminare le vie delle nuove generazioni rendendo le loro vite migliori di quelle passate. Proprio alla luce del rapporto che Stefani crea con madre e nonna (discendenza matrilineare, come molto horror moderno, da Halloween a Scream), questo film appare come una delle opere più consapevolmente nichiliste del cinema d’intrattenimento contemporaneo.
Certo, tutto ruota attorno al dispositivo, Final Destination: Bloodlines è un film di puro meccanismo – che i critici oltreoceano hanno definito splatstick, dalla combinazione di splatter e commedia slapstick – gestito in modo quasi impeccabile per ciò che concerne regia e montaggio (Sabrina Pitre); nondimeno, è un’opera che comunica una mancanza di speranza totale, come se cercare di salvarsi sia un atto non solo inutile (chi è in grado davvero di evitare la morte?) ma fallimentare, perché per riuscirci bisogna smettere di vivere, bisogna negare la serenità propria e dei propri cari.
Come se non ci fosse via di scampo dal massacro: strano e interessante che a dirlo sia un film in cui una risonanza magnetica assassina sia al tempo stesso fonte di terrore e risate.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
