Si è visto che era a suo agio; rilassato, ma concentrato, ha scherzato sul canto dei pavoni, ma senza fare la ruota e ha parlato da leader europeo, tanto che in molti si sono chiesti se veniva dall’Eurotower o da palazzo Chigi, se si sentiva ancora presidente della Bce o capo del Governo italiano. Mario Draghi al consiglio informale nel Palacio de Cristal di Porto ha toccato con sicurezza tutti i temi più scottanti dai brevetti sui vaccini (qui ha appoggiato la proposta di Joe Biden, ma ha accolto anche le preoccupazioni di Angela Merkel perché la vera priorità è aumentare la produzione) al passaporto europeo, dalle riaperture graduali in Italia e nei viaggi internazionali, assumendosi quel che ha più volte chiamato “rischio calcolato”, fino alla questione sociale che resta la più grave da affrontare nei prossimi mesi, una volta che usciremo dal tunnel oscuro della pandemia.
Draghi ha ribadito che la politica economica europea, sia quella fiscale sia quella monetaria, deve restare espansiva, una doccia fredda sui bollori di quei Paesi che vorrebbero già discutere di come tirare le redini, una volta lanciata la ripresa. È troppo presto e, anche alla luce del mega sostegno varato dall’amministrazione americana, sarebbe un errore imperdonabile, sostiene Draghi, il quale ha lanciato la proposta di trasformare il fondo Sure per la cassa integrazione in uno strumento strutturale, architrave di un vero e proprio welfare europeo da finanziare con risorse comunitarie. Non ha trovato un consenso unanime, ma molti lo hanno sostenuto come ha ricordato nella conferenza stampa.
Sarà un cammino difficile e senza dubbio lungo, è la gamba che manca all’Unione Europea e Draghi lo aveva detto anche quando era alla banca centrale. L’Ue resta indietro rispetto agli Stati Uniti nella crescita e nel livello di occupazione, la ripresa sarà più lenta e il mercato del lavoro più rigido ha l’effetto perverso di creare meno posti di lavoro e mantenere ampie sacche di forza lavoro non utilizzata o impiegata in modo temporaneo e inefficiente. Il welfare europeo è un pezzo importante per arrivare alla creazione di un mercato unico sia pur articolato su base nazionale o di macro-regioni come avviene già oggi sia pure in modo spontaneo e con effetti contraddittori.
Il piano nazionale di ripresa e resilienza e più in generale l’intero piano europeo è condizione necessaria per aumentare l’occupazione, ma non è sufficiente. I Paesi che hanno una produttività più bassa e un ritardo nella cresciuta, come l’Italia, debbono riformare in modo profondo il proprio mercato del lavoro. Draghi ha parlato esplicitamente di questo ritardo italiano, ancora una volta non ha negato i problemi che ha di fronte come capo del Governo, con stile asciutto, chiaro, che va dritto al nocciolo delle questioni. E ha ricordato così che la vera novità del suo Pnrr riguarda quelle quattro riforme strutturali che ha indicato come prioritarie: giustizia, Pubblica amministrazione, fisco e concorrenza. La riforma del welfare s’incrocia in modo trasversale con tutte e quattro, rappresenta in un certo senso la risultante degli interventi per semplificare e rimuovere i lacci che imprigionano l’Italia. Ma è inutile ricordare che qui incontrerà ostacoli non facili da superare.
I sindacati si sono messi in moto e chiedono di avere il loro posto alla tavola della governance; Matteo Salvini agita ancora quota 100 che andrà superata, come prevede il Pnrr, ma non sappiamo ancora esattamente in che modo; il M5s non cederà facilmente sul reddito di cittadinanza, anche in questo caso il piano prevede una sua trasformazione, ma bisognerà vedere fino a che punto si riuscirà a passare da una logica assistenziale a un legame organico con la ricerca del posto di lavoro; decisivo sarà far funzionare i Centri per l’impiego che oggi sono una variante dei vecchi uffici di collocamento e dove la ricerca attiva, legata alla riqualificazione, è aleatoria. Sullo sfondo c’è sempre la tentazione di ripristinare in modo più o meno surrettizio l’articolo 18 e la sua logica di fondo.
Molti Paesi dell’Unione sono già con il fucile spianato; dopo aver ascoltato con educata attenzione le lezioni di Draghi lo attendono al varco. E sottolineano in rosso ogni pur piccolo sussulto che viene dal variegato e instabile schieramento che sostiene il Governo. Giuseppe Conte ha lanciato una frecciatina, mettendo in rilievo che un uomo solo al comando non può certo risolvere questioni tanto intricate e oggettivamente complicate (lui ne ha fatto esperienza e adesso ammonisce il suo successore). Ha certamente ragione, purché non nasconda la voglia di tirare il tappeto da sotto i piedi del Governo. È vero che né lui né Salvini, innervosito dalle tensioni con Giorgia Meloni, la sua diretta concorrente, non hanno alternative in questo momento, mentre s’avvicina a grandi passi il semestre bianco che blocca ogni velleità di far saltare il banco. Ma in politica, come sappiamo, non regna la ragion pura.
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