FINANZA/ Il vero rischio di un rialzo dell’inflazione

- Paolo Annoni

Salgono i rendimenti dei bond statali, specie negli Stati Uniti, per il timore di un aumento dell'inflazione. A rischiare è anche l'economia reale

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La risalita dei rendimenti delle obbligazioni statali americane e, in misura decisamente inferiore, di quelle europee è il tema del giorno. Gli investitori si interrogano se questo fenomeno sia l’inizio di un trend o una fiammata che rientrerà e poi quali possano essere le conseguenze per il mercato azionario dato che, in un mondo normale, i rendimenti in salita delle obbligazioni non sarebbero una buona notizia per le azioni. Quello che è certo è che dietro la risalita ci sia una scommessa sull’incremento dell’inflazione (“reflation trade”) che alla fine porterà inevitabilmente le banche centrali ad alzare i tassi per raffreddare la salita dei prezzi. 

In effetti l’elenco delle materie prime che negli ultimi mesi hanno avuto rialzi decisi è piuttosto lungo: dal petrolio al rame, dall’acciaio fino alle commodity agricole. 

Non è la prima scommessa sull’inflazione dei mercati negli ultimi dieci anni. Dal fallimento di Lehman i mercati hanno ciclicamente scommesso su un rialzo dell’inflazione come conseguenza di una ripresa buona che alla fine avrebbe coinvolto anche i prezzi e i salari. Le banche centrali, in un certo senso, ci hanno contato per ripagare la bolla dei debiti partita nel 2008 con l’inflazione. La scommessa dei mercati, però, è sempre stata disattesa, perché le azioni delle banche centrali e quelle dei governi non sono pienamente riuscite a fari ripartire l’economia globale; c’è stata sicuramente una reflazione degli asset finanziari che però ha escluso larghi strati della popolazione. I “sovranismi” degli ultimi dieci anni e, in primis, quello di Trump sono stati il risultato di una delusione dell’uomo della strada rispetto alle aspettative di crescita.

Oggi il reflation trade avviene ma il contesto è mutato perché si scontra con uno scenario stravolto dalla pandemia e dalle politiche statali per fari ripartire l’economia. L’assenza di inflazione è stato un prodotto di una crescita economica anemica con l’unica, parziale, eccezione degli Stati Uniti. Il mercato però oggi non lavora normalmente; i prezzi del petrolio non possono essere calmierati da un aumento degli investimenti da parte delle società petrolifere perché il contesto politico non lo permette. Ci sono solo le rinnovabili che costano molto di più. Queste restrizioni coinvolgono un numero elevato di attività che includono altre produzioni. 

Chi ha accumulato risparmi non può scegliere di andare in vacanza. Le restrizioni agli spostamenti, il blocco di un numero ampio di attività distorce il mercato in proporzioni che non hanno precedenti. Le catene distributive sono costrette a lavorare “male”. In questo scenario ci potrebbero essere tutte le condizioni per un’inflazione cattiva che avviene anche in presenza di un’economia anemica se non in crisi. I prezzi della benzina, degli alimentari e di molti altri beni salgono anche se l’economia è devastata. In questo contesto anche le banche centrali operano male. 

Osserviamo quindi il “reflation trade” in essere e gli investitori oscillano sapendo perfettamente quale sia stato l’esito finale negli ultimi dieci anni. Questa volta però potrebbe essere diverso perché un fallimento sulla ripresa potrebbe convivere con un rialzo dei prezzi mentre nei cicli passati le condizioni economiche sono rimaste anemiche ma i prezzi, a parte qualche eccezione, sono rimasti contenuti. Nel medio periodo queste condizioni potrebbero essere un problema perché il mondo si è strutturato, da più di dieci anni, per vivere in uno scenario di assenza di inflazione se non di deflazione. Pensiamo, per esempio e banalmente, alla quota di mutui a tassi variabili fatti su importi ingenti negli ultimi dieci anni. 

Questo è solo una minima parte dei problemi in un mondo che ha disimparato a convivere con cicli di risalita dei prezzi lunghi.

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