Il tema del fine vita torna a fare discutere dopo alcune sentenze della Consulta. Una legge da sola non potrà affrontare tutte le questioni aperte
Dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 2019, che ha aperto la strada alla possibilità, in specifiche ed eccezionali circostanze, di non essere puniti per aver sostenuto il proposito suicidario di una persona, il tema del fine vita sta facendo di nuovo discutere, anche a motivo di vari progetti di legge che sono stati presentati in Parlamento, tra cui uno proveniente dalla maggioranza di governo. Alcuni di questi progetti vanno ben oltre ai principi elaborati in sede costituzionale e sono volti a regolamentare la morte volontaria medicalmente assistita, cioè l’eutanasia tout court.
Il contesto culturale e sociale è segnato da crescenti pressioni verso ulteriori aperture a pratiche eutanasiche vere e proprie, che tendono a considerare eccessivamente limitanti le condizioni elaborate dalla Corte tramite la sua giurisprudenza.
Dopo il 2019, infatti, ci sono state varie ulteriori sentenze che hanno tentato di precisare i confini che rendono possibile la non punibilità dell’aiuto al suicidio, tra cui – non ultima – la sentenza annunciata venerdì (ma non ancora leggibile in originale) riferita al caso di una donna che non è in condizioni di attivare autonomamente il meccanismo di ingerenza del farmaco letale.
La prassi, poi, in assenza di una legge, ha messo in luce come sia già oggi possibile accedere al suicidio assistito, pur con alcune difficoltà dovute alle incertezze relative soprattutto all’accertamento delle condizioni previste dalla giurisprudenza perché i medici che si prestano a dare il proprio supporto siano esenti dalla punibilità. Il sistema sanitario e i giudici, sia amministrativi sia penali, si muovono in ordine sparso e l’incertezza regna sovrana.
Un aspetto che viene da più parti sottolineato è il basso numero di casi che hanno effettivamente avuto accesso alla procedura suicidaria, dal 2019 a oggi forse meno di una decina, con un palese squilibrio tra questo dato e il peso mediatico delle vicende che vengono portate alla ribalta. Basti pensare che l’Associazione Luca Coscioni dichiara di aver ricevuto almeno 1.700 telefonate di richiesta di informazioni, per quanto questo dato non corrisponda a effettivi propositi suicidari.
Per quanto pochi, i casi portati a termine toccano un nervo scoperto dell’opinione pubblica, anche se spesso non si ha la forza morale di andare fino alle origini di questa sensibilità. La fine della vita è sempre una sconosciuta per tutti e per ciascuno; per questo i casi in cui essa si presenta non come termine naturale ma come fine voluta ed effettivamente realizzata non lasciano tranquilli. E se dovesse capitare a me di volere più la morte che la vita? Difficile non essere coinvolti fino in fondo.
È probabilmente questo il tema con cui, in ultima analisi, si ha a che fare. La legge aiuta poco, a questo livello. Può tutt’al più mettere dei paletti che facciano da supporto al permanere di una volontà di vita: il progetto governativo, ad esempio, mette in primo piano il diritto alla vita e la tutela che l’ordinamento deve predisporre perché questo diritto sia effettivo e perché non si confonda questo diritto con quello, spesso rivendicato, a chiedere al sistema pubblico di supportare i propositi suicidari.
In modo molto interessante, sempre questo progetto (che non verrà discusso prima di settembre) pone condizioni normative e finanziarie perché vi sia una diffusione molto capillare delle cure palliative e anche perché ogni aiuto al suicidio sia offerto su base volontaria, gratuitamente e non a opera del Servizio sanitario nazionale. Su quest’ultimo punto, peraltro, la Corte Costituzionale, nelle sentenze annunciate ma non ancora diffuse, sembra mostrare aperture, benché occorra poi leggere la sentenza per capire qual è davvero il senso delle argomentazioni addotte.
Se questo potrà, forse, fare la legge – ed è davvero poco rispetto alla gravità del problema – il resto spetta alla società civile. Essa deve prendere sul serio la sfida di chi si pone come paladino dell’autodeterminazione tout court, senza tener conto dei numerosi problemi sociali che si possono porre se si diffonde una cultura di morte o, peggio, una cultura che invece della cura, anche se difficile e talora costosa, propone uscite facili verso soluzioni a poco prezzo.
In tutti questi aspetti la legge può fare la sua parte, ma non molto di più. Bisogna davvero che nasca un movimento – e i presupposti ci sono, nel nostro Paese – votato a sostenere i più deboli, a non opporsi in modo ideologico, capace di dialogo con tutti sui fondamenti etici e antropologici di una cultura della vita.
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