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Home » Esteri » Medio Oriente » GAZA E CISGIORDANIA/ Netanyahu al bivio tra invasione (e pulizia etnica) ed elezioni anticipate

  • Medio Oriente
  • Esteri

GAZA E CISGIORDANIA/ Netanyahu al bivio tra invasione (e pulizia etnica) ed elezioni anticipate

Int. Ugo Tramballi
Pubblicato 21 Agosto 2025
Smotrich e Netanyahu, Israele

Governo Israele, il Premier Netanyahu con il Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich (ANSA-EPA 2025)

Smotrich annuncia un piano che divide in due la Cisgiordania e impedisce lo Stato palestinese. L’unica speranza per Gaza è che Hamas se ne vada

Israele approva il progetto E1, con insediamenti nel corridoio che divide la parte settentrionale della Cisgiordania da quella a sud. Ma soprattutto, come spiega il ministro Bezalel Smotrich, cerca di mettere una pietra sopra allo Stato palestinese, che, con la realizzazione di questo piano, diventerebbe sempre meno probabile.


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Eppure, spiega Ugo Tramballi, editorialista de Il Sole 24 Ore e consigliere scientifico dell’ISPI, Smotrich non fa altro che rendere evidente quello che la maggior parte degli israeliani pensa, e cioè che la Palestina come Stato è una sciagura.

Intanto Israele prepara una nuova operazione a Gaza, mobilitando decine di migliaia di riservisti e insistendo sull’idea di concentrare i palestinesi in un “villaggio umanitario” per poi espellerli. Per offrire un’alternativa alla Striscia bisognerebbe allontanare Hamas, cosa che anche i Paesi arabi stanno cercando di fare, anche se poi ci sarebbe sempre da convincere Israele che bisogna trattare per uno Stato palestinese.


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L’insediamento approvato da Israele in Cisgiordania è la pietra tombale sullo Stato di Palestina?

Gli israeliani non hanno mai costruito nella zona E1 proprio per non rompere la continuità territoriale fra nord e sud della Cisgiordania. Ora però Smotrich ci ha semplicemente detto in modo brutale quello che pensa la maggior parte degli israeliani: che lo Stato palestinese, per loro, è una minaccia. Anche nei primi anni del processo di pace di Oslo gli israeliani hanno moltiplicato del 100 per cento il numero delle colonie in Cisgiordania. Hanno raddoppiato gli insediamenti.

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Se gli israeliani costruiranno insediamenti in questo corridoio, in caso di ripresa del processo di pace dovranno andarsene. Se non sarà così, proseguirà la progressiva occupazione dei territori. I leader europei pensano che sia importante riconoscere lo Stato palestinese, ma se non si fa qualcosa anche di concreto perché questo Stato possa nascere diventa tutto inutile.

Il ministro della Difesa Katz ha dato il via libera ai piani per la nuova operazione militare a Gaza e sarebbero stati richiamati 130mila riservisti. Ormai si è deciso di invadere?

Tutto lo lascia credere; può anche essere, però, al contrario, che in questo modo si voglia esercitare una pressione per modificare l’accordo sulla tregua e rilasciare tutti i prigionieri. Potrebbe essere un modo per convincere Hamas. Temo, tuttavia, che non sia così, ma che i due giorni di tempo che Netanyahu si è preso servano a decidere se, dal punto di vista politico, gli convenga ignorare la tregua e proseguire nell’operazione di sostanziale pulizia etnica di gran parte di Gaza oppure, considerando le pressioni internazionali, andare a elezioni anticipate, aderendo al cessate il fuoco.

Quest’ultima soluzione comporterebbe la caduta del governo, perché gli estremisti di destra hanno già detto che, in quel caso, se ne andranno. In questo momento, però, fino a ottobre la Knesset è chiusa e fino ad allora il governo potrebbe continuare comunque a prendere le sue decisioni.

Andare al voto non sarebbe comunque un rischio?

Forze israeliane durante le operazioni a Gaza (Ansa)

I sondaggi sono molto ambigui. Netanyahu ha perso consenso, ma il Likud, il suo partito, no. O meglio, arriverebbe intorno al 22-25% dei voti, in un sistema proporzionale come quello israeliano quanto basta per vincere le elezioni: l’opposizione è divisa, mediocre e nessuno è capace di formare un fronte unito. Il Likud, insomma, potrebbe avere ancora il mandato per formare il governo.

Alcuni parlano di 60mila riservisti mobilitati per attaccare Gaza, altri di 130mila. Ma per la società israeliana il peso della guerra non comincia a essere difficile da sopportare?

I soldati sono quasi tutti riservisti, gente inserita nel sistema economico del Paese: lo Stato deve mantenere loro e le loro famiglie finché non torneranno a lavorare. Però, in questi ultimi due anni, la borsa di Tel Aviv è aumentata del 40%, mentre le altre sono cresciute mediamente del 20%. L’economia israeliana funziona nonostante la guerra, anche se ogni giorno di bombardamento sull’Iran è costato 400 milioni di dollari.

Molti riservisti, però, hanno manifestato il grave disagio che comporta il ritorno al fronte. C’è qualche crepa nell’esercito che può mettere in dubbio il ricorso alla guerra?

Lo stress derivante dal trauma di combattimento si vedrà dopo, però il numero di feriti, anche gravi, comincia a pesare. Aumentano anche i giovani che non vogliono andare a fare il militare. Ci sono state anche manifestazioni per la liberazione degli ostaggi e il cessate il fuoco, ma la gran parte del Paese non è coinvolta in questo; anzi, vuole liberarsi dei palestinesi, non solo di Hamas. Ci si rifiuta ancora di ammettere quello che sta accadendo a Gaza, anche da sinistra.

Realisticamente, il piano per Gaza, al di là delle ipotesi di deportazione in Libia o in Sud Sudan, rimane quello di concentrare i palestinesi in un punto per poi rendere loro la vita impossibile e costringerli ad andarsene?

Molti oggi vorrebbero andarsene da Gaza, non perché rinuncino all’idea di essere palestinesi, di avere uno Stato, ma perché da due anni sono sotto i bombardamenti più brutali dalla fine della Seconda guerra mondiale. Solo che adesso è chiuso anche il valico di Rafah. Prima, pagando gli egiziani, si poteva passare, ora non più. Siamo di fronte a una vera pulizia etnica, a un crimine contro l’umanità. L’idea è di creare un “villaggio umanitario” in cui concentrare almeno 600mila persone da allontanare. Nessun Paese al mondo, tuttavia, può prendersi tanti rifugiati.

Tutte queste persone, però, anche se non ci saranno accordi ufficiali con altri Stati per il loro trasferimento, da qualche parte dovranno trovare sistemazione. Destabilizzeranno comunque il Medio Oriente?

Se l’esercito giordano o quello libanese si opporranno, impedendo l’afflusso nei Paesi vicini, Israele farà la guerra anche ai Paesi con i quali è in pace? Oltre che moralmente inammissibile, questa soluzione è praticamente impossibile da realizzare. È una prova di arroganza, di ideologia religiosa, perché c’è di mezzo il millenarismo ebraico e la convinzione che è Dio stesso ad avere concesso la terra. Solamente nel mese di luglio, nella West Bank, gli israeliani hanno messo a segno 1.300 operazioni militari, in un’area grande come Milano e la provincia di Monza. Tutto frutto della stessa mentalità che ha prodotto i piani per Gaza.

La deportazione dei palestinesi è una soluzione che si ritorcerà contro Israele?

Si sta già ritorcendo. I governi europei non hanno avuto il coraggio di applicare sanzioni nei confronti di Israele, a parte Merz, che ha deciso di non fornire più armi a Tel Aviv, ma le opinioni pubbliche europee stanno già praticando l’isolamento di Israele: le università annullano gli accordi scientifici, culturali, artistici; gli allenatori chiedono di sospenderlo dal calcio internazionale; negli alberghi gli israeliani vengono cacciati.

Cosa deve succedere perché ci sia una speranza per Gaza?

I Paesi arabi sono disposti a riportare la calma, a garantire la sicurezza e soprattutto a iniziare la ricostruzione di Gaza. Ma Israele deve essere d’accordo e accettare che al vertice della Striscia ci sia l’ANP; nessuno degli Stati vicini può normalizzare la situazione a favore degli israeliani.

Comunque, e su questo Netanyahu ha ragione, finché c’è Hamas non c’è futuro: nessun Paese arabo investirà soldi per la ricostruzione se Hamas controllerà Gaza. Non per niente si sta cercando di convincere o costringere Hamas a farsi da parte, mandando in esilio i suoi capi in Qatar o in Algeria. Questo è il punto: non ci deve essere più Hamas. Poi bisogna convincere Israele a riprendere un dialogo politico, una trattativa che porti a riconoscere un soggetto palestinese.

(Paolo Rossetti)

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Tags: Benjamin Netanyahu

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