“La pace regionale include la pace per Israele, ma ciò potrebbe avvenire solo attraverso uno Stato palestinese”. La dichiarazione, resa a Davos, è del ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita Faisal bin Farhan, che nella stessa occasione ha confermato la volontà di Riyad di normalizzare i rapporti con Israele, riprendendo il percorso interrotto dall’attacco del 7 ottobre. Parole che hanno suscitato qualche perplessità nel mondo arabo, ma che dimostrano la disponibilità a cercare una soluzione solida e duratura per la questione palestinese.
Oltre all’Arabia torna a recitare un ruolo importante il Qatar, fautore dell’accordo che porterà aiuti umanitari a Gaza in cambio di medicinali per gli ostaggi e grande tessitore della tela che punta a una soluzione complessiva della crisi. Senza una prospettiva seria per i palestinesi, spiega Camille Eid, giornalista libanese residente in Italia e collaboratore di Avvenire, si rischia che, come nel 1948, ci siano ripercussioni su tutti i regimi della zona, cambiando volto al Medio Oriente. Il nodo da sciogliere è quello dello Stato palestinese. Anche perché le dichiarazioni del premier israeliano Netanyahu vanno nella direzione opposta, quella di una nuova occupazione israeliana della Palestina. Hamas, intanto, sembra voler rinunciare alla soluzione dei due Stati. In realtà nel suo statuto ha già accettato una Palestina come Stato autonomo sui confini del 1967, senza però riconoscere ufficialmente Israele, di cui prevede la distruzione.
Quanto contano le parole del ministro saudita su un possibile accordo con Israele che comprenda la realizzazione di uno Stato palestinese? È questa la strada maestra per una soluzione del conflitto?
Il ministro saudita ha condizionato la ripresa della trattativa con gli israeliani alla costituzione di uno Stato palestinese. Ha dichiarato che una pace regionale deve valere sia per Israele sia per la Palestina. Il primo passo per arrivarci è un cessate il fuoco. Anche il segretario di Stato Usa Blinken ha ribadito a più riprese che c’è interesse a riprendere i colloqui tra sauditi e israeliani, mentre l’ambasciatore saudita a Londra in un’intervista alla BBC ha addirittura detto che l’interesse a trattare risale al 1982.
Come sono state accolte le parole di Faisal bin Farhan?
Un commentatore saudita alla CNN ha confermato che l’Arabia è disposta a riprendere le trattative, ma a un prezzo più alto di quello prospettato prima del 7 ottobre, sostenendo che ci vogliono passi concreti nella direzione della soluzione dei due Stati. Ha detto che i sauditi non vogliono un’operazione estetica e neanche promesse che poi non verranno mantenute.
Mentre prima nella normalizzazione dei rapporti Israele-Arabia Saudita la questione palestinese non era così centrale ora è diventata fondamentale?
Sì. Molti Paesi del Golfo, però, hanno già normalizzato le relazioni con Tel Aviv: lo hanno fatto il Barhein, l’Oman, gli Emirati Arabi, il Qatar sta facendo da mediatore. Solo il Kuwait per ora non ci pensa proprio.
L’Arabia Saudita, comunque, ha un peso superiore agli altri Paesi.
Sì, però l’imbarazzo in questo caso è enorme: prima si pensava ai vantaggi economici, a Neom, la città intelligente che dovrebbe sorgere proprio vicino al confine con Israele. Ora la situazione è diversa. Se la guerra di Gaza dovesse portare a una seconda Nakba, cioè allo sfollamento dei palestinesi in una Striscia distrutta, l’impatto sul Medio oriente sarebbe pesante come nel 1948: rischierebbero di cadere dei regimi. Allora tutti i regimi cambiarono, in Egitto, in Siria, in Iraq, per motivi collegati a quella disfatta militare. Qui si rischia la stessa cosa, anche nella penisola arabica.
La strada indicata dai sauditi quanto è difficile da praticare?
Devono procedere con cautela. L’accordo con Israele non può essere a titolo gratuito. La grande domanda da porsi è se si riescono a muovere passi concreti sulla strada dei due Stati. La situazione in Cisgiordania si sta aggravando e non solo per l’attentato di Raanana: su Haaretz lo scrittore Amos Harel ha dichiarato che la situazione lì è a rischio esplosione. Altro che due Stati, potremmo trovarci di fronte all’occupazione, oltre che di Gaza, anche della West Bank.
L’accordo ottenuto dal Qatar per aiuti umanitari in cambio di medicinali agli ostaggi detenuti da Hamas ha anche il merito di avere ridato fiato alla diplomazia?
Ha riaperto i canali diplomatici. Anche la Francia ha contribuito a questo accordo: ha acquistato farmaci destinati a viaggiare su due aerei dal Qatar in Egitto per farli poi entrare nella Striscia. Un passo verso la pacificazione, ma evidentemente non basta. Il Qatar sta lavorando anche a livelli molto più alti per individuare una possibile soluzione che metta fine alla guerra, puntando sempre alla creazione dei due Stati. Tutti si allarmano perché ha finanziato Hamas, ma Doha sta facendo i suoi interessi: ha un ufficio di collegamento con Israele ed è il Paese dove c’è la maggiore base americana, dalla quale sarebbero partiti gli aerei americani che sono andati a bombardare gli Houthi. Il Qatar aspira ad avere un ruolo importante nella regione. Spesso è in contrasto con Emirati Arabi e Arabia Saudita, però è l’unico Paese che ha saputo gestire la situazione mantenendo un piede in due scarpe.
Intanto però Netanyahu ha detto che la guerra potrebbe continuare anche nel 2025, spiegando che vuole ristabilire kibbutz e comunità nella zona cuscinetto con Gaza e garantire loro una crescita superiore a prima del 7 ottobre. Non è una pietra tombale sull’ipotesi di uno Stato palestinese?
Netanyahu nella sua carriera non ha fatto altro che vantarsi di aver fatto fallire lo Stato palestinese, è un fautore della ricolonizzazione di Gaza e Cisgiordania. Non è una novità. La pace non è affatto raggiungibile con l’attuale governo. Il massimo che si può ottenere con Netanyahu è un’autonomia limitata sul tipo di quella applicata in questi anni. Ma non è lo Stato palestinese.
Intanto Khaled Meshal, uno dei leader di Hamas, avrebbe dichiarato su Telegram che rifiuta la soluzione dei due Stati. Un altro veto che rende più difficile la pace?
Hamas nel 2017 ha modificato il suo statuto, prevedendo la possibilità che nasca uno Stato palestinese ma senza riconoscere Israele. Nel documento si parla della Palestina come unità geografica indivisibile, dal Nord a Eilat, dal Giordano al mare, ma poi dicono di accettare uno Stato palestinese sui confini del 1967. Meshal dice di rifiutare l’espressione “soluzione dei due Stati”, ma solo perché, parlando di due entità, non vuole implicitamente riconoscere Israele.
(Paolo Rossetti)
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