I Paesi arabi vogliono scongiurare l’attuazione del piano Trump per Gaza. Pronti 20 mld per i primi 3 anni di ricostruzione. Ecco le vere incognite
Il piano fa capo ad Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Egitto e Giordania ed è l’alternativa al progetto di Trump di trasformare Gaza nella “riviera del Medio Oriente”, mandando i palestinesi altrove. La proposta araba prevederebbe 20 miliardi di dollari per i primi tre anni di ricostruzione, gestiti da un Comitato palestinese di tecnici.
I Paesi promotori, osserva Paola Caridi, saggista e presidente di Lettera 22, sanno che non possono assecondare le richieste di Trump: la deportazione di 2 milioni di palestinesi avrebbe effetti devastanti sulla stabilità delle altre nazioni della regione. Un tema dibattuto in un contesto in cui ci si chiede ancora se la tregua reggerà. Per mantenere il cessate il fuoco, Netanyahu potrebbe chiedere pesanti concessioni. Rimane irrisolta anche la questione dell’unità dei palestinesi.
I Paesi arabi hanno in mente un piano per ricostruire la Striscia, gestito da un Comitato di palestinesi che non siano né di Hamas né dell’ANP. Gaza verrà rilanciata dai tecnici?
Nei negoziati interni ai palestinesi, che si tengono al Cairo, si parla da tempo di una governance costituita da tecnici di Gaza, composta da figure non legate alle diverse fazioni, anche se è difficile dire dove si possano trovare persone che siano elementi terzi. E la questione non è tanto portare l’ANP a Gaza, ma farla cooperare con gli altri gruppi presenti nella Striscia. La vera questione da risolvere è Abu Abbas (Abu Mazen, nda).
Perché il presidente dell’Autorità Palestinese rappresenta un problema?
La sua ultima mossa, quella di togliere la pensione o comunque il sostegno economico alle famiglie dei martiri (che comprendono un po’ tutti, da chi ha compiuto attentati nel passato a chi è stato ucciso o è in prigione), è un segnale di debolezza, molto duro nei confronti della società palestinese.
Tant’è che a reagire immediatamente è stato Khadoura Fares, personaggio che naviga nella politica palestinese da decenni, il rappresentante più in vista dell’associazionismo dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. Abbas lo ha dimissionato perché aveva espresso critiche nei confronti di questa decisione.
Comunque è in una posizione in cui può ancora incidere molto. Come esercita il suo potere?
È su posizioni così piegate agli israeliani che è diventato un problema per il mondo palestinese, che prosegue i negoziati per trovare un’intesa al suo interno. A Doha c’è stata una conferenza nazionale di palestinesi, alla quale ha partecipato Hamas, ma anche persone incardinate nell’OLP e figure terze come Mustafa Barghouti e altri che hanno sempre fatto da mediatori.
Tutto questo dibattito, però, sta producendo qualcosa?
È tutto da vedere. Però non escluderei del tutto un ruolo palestinese a Gaza, anche perché nessun arabo, come gli emiratini, i sauditi, gli stessi qatarini, riuscirebbe mai a governare la Striscia senza i palestinesi. La domanda vera è quanto contano le fazioni armate rispetto a quelle politiche. Lo spettacolo dato in occasione della liberazione degli ostaggi è stato osceno ed evidente, però vuol dire che il coordinamento delle formazioni armate, che dovrebbe essere cominciato nel 2021, esiste: nella regia dell’ultimo rilascio era coinvolto anche il Jihad.
Al di là dei movimenti interni ai palestinesi, il piano arabo per Gaza cosa prevede?
La ricostruzione di Gaza l’hanno pagata sempre gli arabi. Loro hanno dovuto gestire la ricostruzione nelle altre precedenti quattro guerre israeliane. Parliamo di miliardi spesi in cemento, infrastrutture per ricostruire dopo i bombardamenti israeliani. Stavolta, però, i conti della Banca Mondiale individuano danni per 50 miliardi di dollari, non per i 5 miliardi di dollari del 2009, quando ci fu l’operazione Piombo Fuso. Parliamo di dieci volte tanto. Un’operazione che anche stavolta si intesteranno gli arabi, anche se ci saranno pure linee di finanziamento attraverso le organizzazioni internazionali, come la Banca Mondiale e l’ONU.
Perché pagheranno anche stavolta?
Hanno capito benissimo che il piano Trump li metterebbe in estrema difficoltà. Trump e Netanyahu sono riusciti nella difficilissima impresa di compattare un pezzo del mondo arabo. E ce ne vuole. Sauditi, Egitto, Giordania, Qatar – ma ci metterei anche l’Oman, mentre per il Bahrein è più complicato – sanno benissimo che rischiano la loro stabilità.
Il piano prevede 20 miliardi per i primi tre anni di ricostruzione, ma anche, appunto, un Comitato di palestinesi che se ne occupi: quest’ultimo è lo strumento da cui potrebbe nascere il soggetto che governerà nella Striscia?
Una cosa è una governance per gestire le macerie, un’altra è la gestione più complessiva della Palestina. L’ANP non è stata sciolta e lo Stato di Palestina è osservatore all’ONU, è l’incarnazione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, unico legittimo rappresentante dell’intera popolazione: quella che si riconosce come palestinese è rappresentata dall’OLP. Per questo non si può pensare che il Comitato che gestisce la ricostruzione rappresenti i palestinesi.
Il piano arabo, quindi, pensa alla ricostruzione ma non alla governance futura di Gaza?
C’è bisogno di un piano alternativo a Trump e quindi si comincia a proporre questo. Va considerato anche il fatto che non si può pensare di risolvere i problemi dell’unità palestinese sull’onda di un genocidio. Per ora c’è l’urgenza di un Comitato che guidi la ricostruzione, anche se poi rimane la speranza che attraverso di esso si superino le divisioni.
Prima di pensare a un futuro ancora lontano, cosa si può dire della tregua? Reggerà?
Ci sono più scuole di pensiero, la questione vera è la seconda fase. Hamas, anzi, Khalil Haya, ha detto che vorrebbe fondere seconda e terza fase, liberando tutti gli ostaggi e chiedendo il ritiro in un colpo solo degli israeliani. Si rende conto che non può continuare senza gli aiuti umanitari, perché il braccio di ferro non è solo sugli ostaggi, ma anche sul blocco di caravan e tende rimaste fuori da Rafah e che Israele non fa entrare nella Striscia, nonostante fosse previsto dagli accordi. Dovevano arrivare 200mila tende, ne sono entrate un decimo.
L’intesa funzionerà? Si continuerà secondo i piani previsti nelle diverse fasi?
C’è una scuola di pensiero più pessimistica, secondo la quale Netanyahu non vuole arrivare alla seconda fase oppure chiederà di pagare un prezzo altissimo, cioè lo svuotamento di Gaza, anche se non vedo possibile spostare 2 milioni di persone. Essenzialmente, di nuove guerre non ne vorrebbe.
La prova del nove l’avremo settimana prossima, quando i colloqui per la seconda fase entreranno nel vivo?
Non solo, la prova del nove è anche nei due summit arabi. Il summit di Riad è stato rinviato e quello del Cairo, previsto per il 27 febbraio, è stato spostato al 4 marzo. Gli arabi sono sotto pressione: per alcuni di loro, come Giordania ed Egitto, il mancato sostegno finanziario degli Stati Uniti rende la loro posizione ancora più difficile.
Mettere in difficoltà Amman inviando profughi palestinesi potrebbe essere devastante anche per questo?
Il potere giordano non è solo quello della casa reale, ma anche delle forze armate. Trump vuole dettare legge in una situazione in cui ha bisogno di questi Paesi arabi, che devono essere stabili. Per questo lo spostamento di due milioni di palestinesi non può funzionare, anche se Israele lo vorrebbe per liberarsi dei palestinesi.
(Paolo Rossetti)
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