È stato ritrovato morto ieri, insieme alla moglie, Gene Hackman, attore che dava uno slancio a qualunque film a cui diceva sì
Non è semplice da dire, ma Gene Hackman è stato probabilmente il più grande attore statunitense della sua generazione, sicuramente il migliore della Nuova Hollywood. So che è una dichiarazione temeraria quando a quella generazione appartengono anche Robert De Niro e Al Pacino, ma ne sono convinto, perché nessuno come lui ha saputo adattarsi, spaziare, puntare in alto e in basso, godere dell’azione e richiudersi nell’introspezione, abilissimo a scavare dentro se stesso, a far percepire il proprio talento non tanto dalle deformazioni corporali, dall’espressione del viso, dalla profondità luciferina dello sguardo e della voce, quanto dalle crepe delle sue rughe.
Hackman, la cui fine all’età di 95 anni, per ora avvolta nel dubbio, rende la sua figura ancora più grandiosa, almeno nel sentimento dei suoi fan e nella narrazione giornalistica, si era ritirato da una ventina d’anni. Non aveva più stimoli, dopo una carriera in un cui si era dato generosamente in tutti i film possibili, di serie A o B, fallimentari o capolavori, donandosi al pubblico prima che all’arte, e nel 2004 aveva preferito appendere la recitazione al chiodo per dedicarsi a scrivere e alla vita con la moglie. Ogni tanto appariva una foto, vedevamo che stava bene, ed eravamo ancora più felici per lui, che felici noi cinefili eravamo già grazie ai suoi film.
Infanzia complicata tra spostamenti, genitori divorziati, madre che muore perché il letto prende fuoco a causa di una sigaretta, trova un centro alle sue intemperanze caratteriali – magistralmente introiettate nei suoi ruoli – prima nei Marines, dove si arruola volontario a 16 anni come radio operatore, e poi, dopo molti lavoretti, con la recitazione, intrapresa a 22 anni presso lo storico Pasadena Playhouse, dopo sei mesi di giornalismo nell’Illinois.
Poca teoria, tanta pratica: Hackman è un talento istintivo, tutto volto e corpo, predisposto al lavoro sugli schermi più che sul palcoscenico e così, dopo un breve praticantato in tv, viene gettato a inizio anni ’60 al cinema, con ruoli che secondari in cui catturava l’attenzione, fin quasi a rubare la scena ai protagonisti, come accade nel ’68, quando in Gangster Story (film di Arthur Penn che cambiò il corso del cinema hollywoodiano), nel ruolo del fratello di Clyde (Warren Beatty) si assicura la prima nomination all’Oscar.
Da lì parte un decennio memorabile, gli anni ’70 della Hollywood rivoluzionata in cui lui è un re sotto traccia, che non ha bisogno di proclami o monumenti per farsi amare: tra Il braccio violento della legge (Oscar), La conversazione, Frankenstein Junior, Bersaglio di notte e il Lex Luthor cartoonesco di Superman, vera prova magistrale di duttilità e capacità nella commedia c’è l’imbarazzo della scelta e ne abbiamo dimenticati moltissimi.
Dei 101 titoli accreditati nella sua filmografia non possiamo fare la cernita completa, però vale la pena segnalare che, una volta finita l’epoca d’oro del cinema d’autore made in Usa, Hackman ha continuato a macinare film con la stessa dedizione, incidendo ritratti magnifici anche negli anni ’80 (Colpo vincente o Mississippi Burning) e nei ’90 (oltre all’impressionante cattivo di Gli spietati di Clint Eastwood, uno dei più bei western di sempre, sono grandi riuscite anche Rischio totale e Il socio), aprendosi sempre più a ruoli brillanti, a commedie buffe e intimiste, passando dal Woody Allen di Un’altra donna al Wes Anderson di I Tenenbaum in maniera realmente impagabile.
Non è stato solo un attore straordinario Hackman, ma anche un grande professionista, uno che assicurava qualità a ogni regista e precisione con cui lavorava, dava uno slancio a qualunque film a cui diceva sì, diventando a volte il motivo principale per vedere anche robe imbarazzanti come Behind Enemy Lines o The Mexican.
Non diremo che ci mancherà, perché ci mancava già da un po’, ma è stato meglio ricordarlo sempre impeccabile, piuttosto che implicato in cose ributtanti che magari impedivano l’oblio, ma di cui poi si sarebbe vergognato. Perché il talento conta parecchio per un attore, ma forse anche l’integrità non dovrebbe essere sottovalutata.
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