Non ho competenza nel campo dell’automotive, mai avuta. Per questo, le poche volte in cui mi permetto di intervenire riguardo quel comparto così strategico nell’ambito industriale lo faccio solo rispetto ai ricaschi finanziari, sempre più pesanti e dirimenti. Insomma, mi permetto di dirvi che si sta eccedendo ancora una volta con le rate allegre e i finanziamenti facili verso gente con rating di credito assurdi o che Tesla è niente più che un enorme schema Ponzi travestito da rivoluzione verde, perché quello è il mio ambito. Ma non mi addentrerò mai in questioni meramente industriali o produttive o tecnologiche. La questione della mancata fusione fra Fca e Renault, però, merita di essere quantomeno tratteggiata. E non in ambito finanziario. In ambito politico, ancora più importante.
Ora, giunto a 46 anni, tutto pensavo di dove sentire tranne che la Fiat lamentarsi per l’intervento dello Stato in ambito economico: hanno campato di cassa integrazione e incentivi per qualche decennio, privatizzando gli utili e nazionalizzando le perdite, quindi sarebbe il caso di soprassedere sull’argomento. Qualunque sia stato il reale grado di interdizione o intervento dell’Eliseo. Quantomeno, per buon gusto, dote che almeno l’avvocato Agnelli conosceva e applicava come standard relazionale, in ogni ambito. Io non so quanto e come la politica d’Oltralpe sia intervenuta e non so quanto lo abbia fatto realmente in contrasto con la volontà dell’azienda, la quale giova ricordare essere controllata dallo Stato al 15%: so però che quanto accaduto puzza lontano un miglio di vendetta. E non di Parigi per uno dei tanti sgarbi, bilaterali, occorsi fra il nostro Paese e la Francia nell’ultimo anno almeno, bensì da parte di Washington.
Stiamo cominciando a pagare, a caro prezzo, il memorandum con la Cina? Stiamo pagando l’incauto abuso di pressapochismo e dilettantismo della Lega, poiché il sottosegretario che ha gestito l’intera vicenda è del Carroccio, pur prestando servizio nel dicastero guidato da Luigi Di Maio? Meglio ricordarselo, perché occorre dare a Cesare ciò che è di Cesare. Perché dico questo? Semplice, seguo la mia regola aurea, quella della Settimana Enigmistica: unire i puntini e attendere che la figura nascosta si disveli.
Dov’era Donald Trump a fine maggio, più precisamente fra il 27 e il 29? In visita ufficiale di Stato in Giappone. Chi, stando alle cronache dei bene informati, avrebbe giocato un pesante ruolo nello strappo francese che ha portato al passo indietro di Fca sull’intera operazione? Nissan, partner di Renault e tutt’altro che convinta dell’economicità e della strategicità dell’operazione. Ritenuta, non a caso, troppo sbilanciata sull’ambito finanziario. E ora? Casualmente, Donald Trump dopo lo show di Buckingham Palace durante la visita di Stato a Londra, si è recato in Francia per le celebrazioni del D-Day. Dove, non a caso, era grande assente Vladimir Putin, nonostante il contributo sovietico nella lotta al nazifascismo in Europa. Ed era assente per scelta diretta dell’Eliseo, una mossa che a Mosca hanno decisamente preso male. Molto male. E, casualmente, dopo almeno un semestre abbondante di freddezza glaciale nei rapporti, è riscoppiato l’amore fra il titolare della Casa Bianca ed Emmanuel Macron. Proprio ora che la Germania vacilla e l’Italia è tornata nell’occhio del ciclone per i suoi conti, addirittura alle soglie dell’apertura di una procedura di infrazione formale che verrà decisa non dalla Commissione ma dagli Stati membri. E, quindi, dal loro potere di lobbying all’interno del consesso Ue. E qual è la nostra capacità di interdizione? Zero. Non abbiamo mezzo alleato, nemmeno quei sovranisti di Visegrad che dovevano essere le avanguardie della nuova Europa.
Non a caso, il ministro Salvini – per quanti crocifissi possa baciare e sgranare rosari – è rimasto da solo con la sua amante politica di sempre, Marine Le Pen. Bye bye da Viktor Orban che sarà anche sovranista ma non così idiota da lasciare il Ppe, bye bye da Nigel Farage, formalmente offeso con la Lega per la propensione dei suoi rappresentanti a vendere la pelle dell’orso prima di averla catturata (leggi la volontà di fare gruppo comune a Bruxelles, ipotesi che il leader del Brexit Party aveva detto di voler vagliare, prima di rispondere ufficialmente), bye bye polacchi, bye bye da Vox. Accidenti, un successone il risultato europeo della Lega, se si esce dai confini nazionali della resa dei conti interni, non vi pare? Peccato che adesso la propensione alla mitomania del ministro dell’Interno la paghi tutto il Paese. Sia in ambito europeo che in ambito globale. Perché quella firma in pompa magna del memorandum con la Cina, in un momento simile, a Washington proprio non l’hanno digerita. E stanno presentando il conto.
Guarda caso, sempre il ministro dell’Interno sta approntando in fretta e furia un viaggio istituzionale proprio negli Usa per inizio luglio, dove incontrerà il vice-pesidente Mike Pence, il capo del Dipartimento di Stato, Mike Pompeo e il potente consigliere strategico per la sicurezza nazionale, John Bolton. Non Trump, però. Ufficialmente, perché il protocollo vieta incontri ufficiali fra il Presidente e un vice-premier. Parliamo di Trump, uno che ha salutato la Regina Elisabetta dandole il “cinque” e bevuto Coca-Cola al banchetto a Buckingham Palace: pensate davvero che il suo mancato incontro con Salvini sia dovuto al rigido ossequio verso protocollo ed etichetta? Ma per favore. E qui il problema si fa serio, perché non è limitato alla propensione immaginifica che il ministro dell’Interno ha di sé, tale da risultare un millantantore seriale di rapporti e conoscenze nelle alte sfere. Qui il problema è strutturale: l’Italia è sola. Mai stata così isolata nella sua storia recente, nemmeno durante la fase calante del consenso di Berlusconi. Quando, per capirci, la Merkel e Sarkozy si davano di gomito e ridacchiavano in conferenza stampa.
Ed Emmanuel Macron, dopo aver utilizzato alla perfezione la cortina fumogena dei “gilet gialli” per polarizzare lo scontro con la Le Pen, eliminando ogni residuo pericoloso di opposizione istituzionale, ha capito che è il momento di tornare nelle braccia degli Usa. Ora, se vuole non solo sopravvivere alla crisi istituzionale europea, ma porsi addirittura alla guida della nuova Ue che Popolari e Socialisti non possono più gestire in solitudine bipolare, deve avere le spalle coperte. Molto coperte. E con una Germania che ha tirato troppo la corda su Nord Stream 2 e sanzioni contro l’Iran e un’Italia che si è venduta ufficialmente a Pechino, in mondovisione e per un piatto di lenticchie, al buon Macron non è parso vero di poter cogliere la palla al balzo. Donald Trump, particolarmente attivo sul fronte sanzioni e dazi, dopo aver ottenuto la resa della Fed sui tassi di interesse, vuole inviare un segnale chiaro a Roma, facendo saltare all’ultimo la fusione Fca-Renault?
Ecco fatto, pronti. Tanto questo Governo non è detto che duri (anzi), così come l’atteggiamento vendicativo di Washington verso l’Italia, troppo strategica per averla come nemica. O – peggio – alleata di Pechino. La questione automobilistica si potrà riprendere più avanti. Magari anche prima del previsto, se l’autunno riporterà gli italiani alle urne. Intanto, ecco un bel siluro che colpisce oltretutto un comparto molto sensibile dell’economia. E lo fa dopo che Fiat ha grandemente operato e investito in America, facilitata non poco dalle condizioni di favore trovate con l’amministrazione Obama e con il bail-out federale del comparto. E dopo che il defunto Sergio Marchionne si comportò in modo tale da diventare il produttore più amato da Donald Trump. Il quale lo disse pubblicamente, se ricordate, visitando una fabbrica.
Perché Marchionne è stato manager che può non piacere ma che sapeva come si sta al mondo, tanto da restituire diligentemente il favore ottenuto da Fiat, facendosi capofila dell’apertura di stabilimenti in Usa, in ossequio al Make America great again del neo-eletto presidente. Oggi, invece, ci governano i sovranisti. Quelli che pensano di avere amici ovunque e invece sono come Napalm 51, vivono soltanto di social network e selfie, tra bagni di folla degni della presentazione del tour di Vasco e promesse da marinaio. Come mai, altrimenti, di colpo è divenuta urgentissima e dirimente la successione al dicastero che fu di Paolo Savona, quei Rapporti con l’Ue che il premier Conte avocò a sé attraverso l’interim? Non è forse un disperato tentativo di trovare uno straccio di alleato, dopo due settimane di colloqui post-europee nelle quali si è collezionato solo due di picche in serie?
Ora il tempo delle fanfaronate da campagna elettorale è finito, ora si rischia davvero la fine del Re che si presenta nudo di fronte al bambino che non ha paura di gridarlo. E in queste ore, quel bimbo ha la faccia sveglia e birbante di Emmanuel Macron, lo stesso che più di qualcuno su queste pagine dava per morto attorno a inizio anno. Vorrei essere io defunto, quanto lo è il Presidente francese. E attenti, ieri è uscito il dato sulla produzione industriale tedesca, scesa dell’1,9% contro attese di -0,5%. Insomma, uno schianto pauroso. E qual è il comparto traino dell’industria tedesca? E chi, al netto della narrativa della rivoluzione elettrica ed ecologica, costruisce e vende la gran parte della componentistica per le automobili tedesche? Vi assicuro che, a Parigi, nessuno ha pianto. Anzi.
Davvero siete ancora sicuri che Emmanuel Macron sia stata una meteora, ormai destinata all’oblio? Donald Trump, quello che doveva comprarci i Btp al posto della Bce, non la pensa affatto così. Vogliamo farci forti dell’alleanza – anch’essa presunta e millantata, guardando i fatti – con Mosca e Pechino, forse? Allora perché il ministro dell’Interno, filo-putiniano storico e segretario del partito che ha elaborato il geniale memorandum con la Cina, sta organizzando in fretta e furia un viaggio diplomatico di alto livello negli Usa? Ignorantia legis non excusat, mai. E ora paghiamo il prezzo – salato – alla legge del potere reale. Quella che ti impone, prima di correre, di saper almeno gattonare fra i grandi.