GEO-FINANZA/ Il cessate il fuoco in Ucraina aprirà un nuovo risiko globale

- Giuseppe Pennisi

Il volto dell'economia internazionale sembra destinato a cambiare dopo il conflitto in Ucraina. Alcuni scenari cominciano a delinearsi

container porto pixabay1280 640x300 (Pixabay)

Occorre cominciare a chiedersi quale saranno i tratti salienti dell’economia internazionale quando si sarà risolto il grave problema dell’aggressione della Russia all’Ucraina. Putin ha vietato che si utilizzi il termine «guerra»; quindi, chiamiamola per quello che è: non un’«operazione militare speciale», che, tra l’altro, non pare che a Mosca (che pensava di chiuderla in pochi giorni) stia andando particolarmente bene.

Senza dubbio, l’integrazione economica internazionale prenderà una piega differente (probabilmente con costi elevati per tutti) da quella preconizzata da Francis Fukuyama poco più di trent’anni fa, quando vedeva lo scambio di merci e servizi e l’integrazione dei mercati dei capitali come veicolo anche per portare la liberal-democrazia in quella vastissima parte del mondo (circa due terzi della popolazione mondiale) che non la conosce e non la pratica. Può anzi aver avuto l’effetto opposto.

Come ho ricordato di recente in un’altra testata, Joseph Henrich dell’Università di Harvard ha pubblicato due anni fa un libro dal titolo The Weirdest People in the World. The weirdest (ossia i più strani) saremmo noi “altamente individualisti, ossessionati del nostro successo, non conformisti ed analitici che ci concentriamo su noi stessi, sulle nostre aspirazioni e sui nostri risultati, più che sulle relazioni con gli altri e le regole sociali. Nel resto del mondo, pur ascoltando cantautrici come Billie Eilish, la grande maggioranza trova contrarie alle norme di base del vivere occidentali, ove non repellenti alcuni valori o diritti occidentali. Esempio, la difesa dei Lgbtq; nel mondo mussulmano (2 miliardi di persone) sono esplicitamente vietati dal Corano sono considerati repellenti in gran parte dell’Africa e dell’Asia anche in Paesi non di religione mussulmana. Cercare di portare, più o meno esplicitamente, tramite la globalizzazione tale difesa nel resto del mondo non può non suscitare reazioni fortemente avverse a tutto ciò che ha il profumo di valore occidentale.

I valori occidentali vengono spesso confusi con valori americani, valori che conosco e apprezzo dato che ho studiato negli Stati Uniti e ho vissuto a Washington oltre quindici anni. Ancora peggio perché vengono percepiti come il tentativo di esportare il way of life del Paese che è stato per settanta anni l’egemone del mondo occidentale. Oppure con valori eurocratici, ossia espressi in qualche modo dalla tecnocrazia che lavora per l’Unione europea: la controreazione è il sovranismo nelle sue varie forme e guise. L’integrazione economica internazionale, quindi, ha creato di per se stessa un antidoto quando ha dato l’impressione, a torto o a ragione, di includere anche la globalizzazione dei valori. In effetti, l’integrazione economica ha avuto un brutto colpo con la crisi finanziaria del 2008-2009 (da lì conterei il suo declino), ma il tentativo della globalizzazione dei valori è terminato prima e ciò è stato la molla per nuovi nazionalismi, sovranismi e populismi.

In un recente saggio pubblicato su «Astrid Rassegna», Paolo Guerrieri (Science Po), uno dei pochi economisti che si sono posti il problema) tratteggia due ipotetici scenari.

Nel primo prevarrebbe un movimento progressivo di Stati Uniti e Cina verso una nuova guerra fredda a tutto campo, esteso alle relazioni economiche, con due blocchi di paesi uno sino-russo e l’altro imperniato su Stati Uniti ed Europa. Gli scambi commerciali e di capitali si svilupperebbero per lo più all’interno di ogni blocco economico con una divisione di fatto dell’economia globale. Nel secondo scenario il decoupling verrebbe contenuto alle relazioni di sicurezza, stabilendo condizioni di ferma deterrenza nei confronti della Cina, ma negli scambi internazionali e produttivi tra paesi e nella finanza globale continuerebbero a prevalere condizioni di sostanziale competizione e, là dove possibile, cooperazione. Una economia globale in questo secondo scenario certo più controllata e regolamentata, ma ancora capace di sfruttare le specializzazioni dei vari paesi e le opportunità presenti a livello globale. 

Il primo scenario con una marcata divisione in blocchi dell’economia mondiale comporterebbe una vasta ristrutturazione. Basti pensare che nella prima Guerra Fredda, il blocco dell’Unione sovietica e dei Paesi satelliti pesava non più del 10% dell’economia mondiale. Nell’ipotesi di una seconda Guerra Fredda i Paesi a economie autoritarie, a partire dalla Cina hanno oggi un peso economico pari al 30%.

Gli scenari proposti da Guerrieri sono interessanti, ma escludono una parte troppo importante del mondo: il bacino del Pacifico, i Paesi emergenti dell’Est asiatico, il sub-continente indo-pakistano, l’America Latina, l’Africa. Se presi cumulativamente oltre il 30% del Pil mondiale.

Su un’ipotesi differente ragionavo circa un anno fa con il mai troppo compianto Francesco Forte. Era chiaro che l’integrazione economica internazionale come immaginata trent’anni fa non solo non faceva progressi, ma anzi faceva passi indietro anche per il tentativo di coniugarla con la globalizzazione dei valori. Il crescere di grandi mercati comuni di merci e, se possibile, servizi con connessa integrazione finanziaria come Recep in Asia, la Safta nel sub-continente indo-pakistano, il Mercosur, Free Trade Area of the Americas, FTAA, il Mercosur, il Nata e l’Alata nelle Americhe, l’Ecowas, il Cemac,l’Efta-Sacu, l’Eftg, in Africa, la Gafta in Medio Oriente. Per non citare che i più noti. La frammentazione degli scambi commerciali e finanziari verrà almeno in parte superata da accordi tra questi mercati comuni.

Per l’Ucraina la collocazione naturale è nell’Unione europea. La Federazione Russa non appartiene a nessuno di questi grandi mercati comuni. Non credo che le ex Repubbliche sovietiche dell’Asia centrale la desiderino. La Cina non la vuole proprio anche perché gli altri membri del il Recp (Regional Comprehensive Economic Partnership) che riunisce 15 Paesi asiatici e, per la prima volta, mette insieme Cina, Giappone e Corea del Sud chiederebbero a Pechino di andarsene via.

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