Giorgio Armani saluta la sua città e tutti coloro che sono stati investiti dal suo genio creativo e da suo sguardo. Ma è solo un arrivederci
L’Italia e il mondo intero perdono moltissimo con la morte di Giorgio Armani. Milano di più. Era una fabbrica di bellezza, un’officina giottesca. Era l’anima di Milano che non smette mai di lavorare. A novant’anni, novantuno, Milano sapeva che lui era là, in quella casa: anche quando girava il pianeta, quest’uomo trasmetteva il suo respiro, l’energia della continua trasformazione, con i suoi lunedì, martedì e mercoledì, vissuti lungo il solito percorso quotidiano, andando in tram, salendo sull’ascensore, scendendo al metrò, un grigio mai noioso: Milano! Il suo ostinato non stancarsi di cambiare facendo le stesse cose, con i piedi per terra e gli occhi in cielo, come la Madonnina.
Ho usato subito di getto una formula consumata, e cioè che “era l’anima di Milano”. Il passato imperfetto è proprio sbagliato. Anima è incompatibile con un “era” o un “fu”. Bisogna credere alle parole che si dicono, come fanno i bambini. I bambini sanno che l’anima è immortale. E anche quella di Armani lo è, l’anima di Milano non è morta: finché dura Milano – fino a quando cioè non sarà azzerata da lapilli nucleari – godrà dell’eternità del suo cuore battente.
Risorgeranno i corpi e risorgeranno le città che avevano un’anima, e ci sono persone che sono coincise con il genius loci di questa città e risorgeranno qui, andranno tutti a salutarle. Da Ambrogio a Carlo, da Manzoni a don Giussani, che fa rima con Armani, così diversi tra loro, così decisivi per il destino di questa metropoli, per chiamarla al suo compito nel mondo. Che non è semplicemente “lavorare”, ma lavorare per costruire il Duomo, un fare profumato della mano callosa del Creatore che chiede di essere imitato.
Lui, il maestro, che pensava da adultissimo, ma vedeva con gli occhi di un bambino, inventava nuovi colori eppure semplicissimi, come il greige, un po’ grigio e un po’ beige, così i suoi abiti facevano cantare tutti i colori intorno: tutto diventava nuovo nel suo sguardo.
Non c’entrano la mistica o il romanticismo ma la storia e la realtà. Questa città è animata da memorie di persone che stanno in piedi e non dormono – come scrisse Gadda dell’Adalgisa – anche da sepolti al Cimitero Monumentale. Impossibile calcificare o monumentalizzare i sunnominati: e così Giorgio Armani. Coincidono con l’essenza vivente di questa città.
Il suo Made in Italy
L’Italia ha perso molto, ma potrà imparare tanto. Il Made in Italy ha da identificarsi più che mai con il suo impegno. Interrogato sul tema, ne diede questa definizione, che in fondo era anche un autoritratto: “Bello, ben fatto e pensato in Italia. Dall’inizio alla fine”. Lui fu pensato e prodotto a Piacenza, nel 1934, da genitori che lo capirono in pieno, e gli consentirono, dopo tre anni di studi di Medicina a Milano, di pensare e respirare alla Rinascente sotto le guglie del Duomo, dandole i suoi gusti nell’apparecchiare le vetrine come quadri. Ma sì, faceva il vetrinista. E dalle vetrine vedeva camminare la gente di Milano.
Da allora Milano, il modo di vestire milanese, cosmopolita e pratico, sono Giorgio Armani. Non lo svolazzo, ma l’essenzialità. L’inversione e la contaminazione dei ruoli: ha dato dolcezza agli abiti da uomo, e forza ai tailleur delle donne, contaminando il maschile con il femminile, non nel segno del lusso, ma della qualità. Ha mostrato che il grigio è un colore e non l’assenza di colori.
Armani è l’italiano che smentisce il luogo comune dell’imprecisione degli italiani connessa con la presunzione di essere poeti. È per la perfezione in modo maniacale. È il genio e insieme la regolatezza. La creatività con i conti in ordine. Milanese! Perciò universale. Milanese non è chi ci nasce, e neanche chi parla il suo dialetto, ma chi ci lavora impiegando con la fiducia i propri talenti, umilmente credendoci, non smettendo mai di cercare la perfezione proprio perché solo chi è imperfetto insiste nel crescere.
Coinvolgendo chiunque da qualunque parte venga e qualunque idea porti con sé a coniugare con lui il proprio desiderio di bellezza pratica, lucente e durevole, mai evanescente. Ha voluto che fosse un italiano geniale (ebreo-lituano-romano), Massimiliano Fuksas, a progettare la sua Armani Ginza Tower a Tokyo, cinquantadue metri di cristallo di pura luce. Il cristallo non è neutro, splende di colori.

Anche la normalità, il vestirsi di grigio ha undici sfumature, come da ragazzo numerò il futuro cardinale lombardo Angelo Scola. Bisogna saperlo drappeggiare, semplificare, trattare come un dono da indossare: ed ecco lo splendore del grigio, l’eccezionale normalità. Si tratta di ripetere gli stessi compiti, versandovi tutte le proprie skills, come si dice in inglese, e in milanese si chiama semplicemente: lauraa (si legge laurà), lavorare non per macinare lavoro e denaro, ma per l’utilità comune, della propria famiglia e amplificandosi fino ai confini dell’universo.
La moda in sé non si può rubare, né copiare, perché il genio è creativo, e un istante dopo i copioni sono stravecchi: questa è la moda. “La moda cambia, nata com’è dal bisogno di cambiamento”, scriveva Proust. Non esiste formula, ma la sorpresa di ogni giorno, come le albe: sono nuove. Sintonizzarci su Armani qualsiasi mestiere si faccia (e con Ambrogio, Carlo, ecc.), lasciarci contagiare dall’armanite, questo è un bel modo di copiarlo, che lui gradirebbe. Quello di “re Giorgio”, come lo chiamano tutti, è stato un percorso onesto, e qualche volta temerario, di invenzione e di tenacia. Di lavoro e di impegno.
L’è un grand Milan
Torno ancora a Milano. Non posso staccarlo dalla sua città. Milano non è una bella donna antica come Roma, neanche una guagliona procace quale Napoli, e neppure una virginea Venere botticelliana tipo Firenze. Perché non è femminile. Come chiarisce il dialetto: Milan l’è un grand Milan. Maschile e con l’accento calcato sulla a, ma guai a metterlo per non perdere tempo in cianfrusaglie: qui non si ordina il cappuccino ma il cappuccio per non sprecare sillabe inutili.
Milano è così. Si specchia in ciascun milanese che cammina svelto con i calzoni ben stirati, e ha l’aria di lavorare anche quando prende il tram fischiettando. Persino le signore sono state reinventate dal genio di Giorgio Armani che le ha vestite di tinte tenui (i colori della pulce, si diceva nel Settecento), che qui non comunicano slavata tristezza ma praticità della vita ed eleganza da esportazione. Cioè milanesità. La moda grazie a lui comprese che poteva essere un motore per l’economia. Spiegò: “Non quella borghese delle signore in atelier, ma quella che usciva dalle fabbriche, pensata da persone moderne”. Massima eleganza senza velleità d’esibizionismo.
Giusto trent’anni fa, fui invitato a una sfilata di moda, prima e ultima volta, nella ex fabbrica Ansaldo che Armani aveva resuscitato.
Ricopia la nota che scrissi allora.
“Alla fine della danza di 65 modelle sulla passerella, in cui la moda ripete il tentativo di ogni arte, e cioè di toccare le stelle, appare Armani. Ha il solito maglioncino, i capelli bianchi di argento immutabile. Allarga le braccia. Un uomo di successo, che dà lavoro a tanti, eppure malinconico. Il genio lombardo delle cose normali, che non fugge nelle fantasie, ma lavora il nostro quotidiano grigiore, accettandolo, come la fatica di alzarsi al mattino, e di filare svelti in ufficio, alle solite cose. E però in questa lieve bellezza della banalità sta il presentimento, forse l’implorazione di un miracolo”.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
