Ieri è scomparso a 91 anni Giorgio Armani, artista inimitabile e imprenditorie della moda. Classico e milanocentrico. Ma fino a un certo punto
Che cosa ha rappresentato per Milano Giorgio Armani? Certamente tantissimo. Ha contribuito come pochi a restituire una dimensione internazionale alla città. L’ha fatta essere un punto di riferimento non semplicemente per la moda ma per lo stile. O per dirla con una parola antica, per l’eleganza.
È stato affettivamente milanocentrico, non ha mai pensato sull’onda del successo di spostarsi su altri palcoscenici, con la consapevolezza che Milano per la sua storia e la sua cultura imprenditoriale fosse il posto giusto e insostituibile dove mettere radici in modo definitivo.
L’organizzazione della sua azienda, che nonostante le dimensioni globali è rimasta di impronta famigliare e che si è tenuta lontana dalla sirene della Borsa, è, al fondo, figlia di una tradizione molto lombarda. Anche il passaggio di consegne dopo la morte del fondatore sembra improntato a quello stile.
Armani è stato globale e anche locale. È indicativa la risposta data in un’intervista recente ad Aldo Cazzullo e Paola Pollo. Raccontando un episodio dei suoi inizi, quando lavorava per Nino Cerruti, ha rivelato da dove scaturivano i suoi gusti: “Mi fece un test, mi mostrò stoffe di vari colori, e scoprì che mi piacevano quelli che piacevano a lui, un po’ spenti… ho sempre amato il colore del fango del Trebbia”.
Il Trebbia, il fiume che confluiva nel Po a Piacenza, città natale di Armani. Quelle tonalità che avrebbero conquistato il jet set hollywoodiano e l’alta società di tutto il globo scaturivano da quegli sguardi ultralocali che Armani non ha mai né rinnegato, né tenuto nascosti.

“La cultura di Giorgio Armani è classica” diceva di lui Gae Aulenti, la grande architetta che in tante occasioni si era trovata a lavorare per lui. “Miracolosamente classica perché il suo lavoro di designer ha espresso sempre, con continuità, la sua crescente crescita interiore e la sua eleganza: un’eleganza severa, che scaturisce da una profonda conoscenza intellettuale e dal piacere dei sensi”.
Ma era anche una cultura estremamente dinamica e moderna, secondo la geniale sintesi fatta da Alberto Arbasino: “Il giovane Armani e l’editore Adelphi (pure milanese) hanno finito per sconfiggere quasi da soli i vecchioni Mao e Marcuse, trasferendo l’immaginario del popolo giovanile dal Vietnam verso Vuitton”. Armani stando sul piedistallo della sua classicità aveva un’energia persuasiva come pochi. Si è fatto icona della contemporaneità.
Milano però ha anche pagato un prezzo, più che alla persona, al modello Armani. È un modello concepito per proteggersi simbolicamente e fisicamente da contaminazioni con il corpo della città. I suoi maggiori insediamenti, da quello centralissimo su via Manzoni a quello appena più esterno, l’Armani Silos di via Bergognone, parlano chiaro: comunicano un senso di impenetrabilità, quasi fossero dei fortilizi. La città di Armani è una città a cerchi molto stretti; grazie alla sua genialità e alla varietà dei marchi lo stilista ha conquistato clienti anche tra chi vive nelle periferie, ma è rimasto del tutto alla larga dalle periferie.
C’è stata una grande stagione dell’imprenditoria italiana dove i protagonisti sapevano sviluppare un pensiero e una progettualità che andava oltre il recinto dell’impresa. Si concepivano come soggetti con una responsabilità pubblica. Armani non si è mai esposto ad assumere una dimensione come questa. Ha scelto di curare alla perfezione il suo orto, che per luce riflessa ha portato benefici materiali e di immagine a Milano. Ma alla fine è come se fosse rimasto esterno ad una città che pur tanto amava.
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