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Home » Politica » GIORNO DEL RICORDO/ Spariti nelle foibe o costretti all’esilio, la memoria “scomoda” di noi italiani

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GIORNO DEL RICORDO/ Spariti nelle foibe o costretti all’esilio, la memoria “scomoda” di noi italiani

Marco Zacchera
Pubblicato 10 Febbraio 2025
Nell'ottobre 1943 una squadra guidata dal maresciallo Harzarich recupera 84 cadaveri di italiani infoibati (Ansa)

Nell'ottobre 1943 una squadra guidata dal maresciallo Harzarich recupera 84 cadaveri di italiani infoibati (Ansa)

Migliaia di italiani fatti sparire nelle foibe, giustiziati e costretti all’esilio, osteggiati perfino in Italia. A loro è dedicato il Giorno del Ricordo

Certo, c’è una legge che in qualche modo va rispettata, ma il Giorno del Ricordo, 10 febbraio, è per molti – ancora e comunque – una ricorrenza scomoda e “sopportata” forse perché troppi, a sinistra, la vedono come un pericoloso intralcio alla vulgata della Resistenza, sempre letta in chiave eroica e liberatrice. Per decenni quanto successe dal 1943 in Dalmazia, Istria e Venezia Giulia è stato un ricordo rimosso pur di non dover ammettere le troppe nefandezze che gravano sulla coscienza (e la responsabilità) di un certo modo di intendere la “liberazione”.


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Questo perché la verità storica che nei decenni è pian piano emersa dall’oblio ha raccontato di una lunga serie di eccidi per mano dei partigiani jugoslavi non solo verso i “fascisti” ma verso i civili, i sacerdoti, chiunque fosse italiano. Purtroppo tra di loro vi furono anche molti partigiani comunisti italiani, alcuni dei quali – va allo stesso modo ricordato – quando si accorsero di quanto stava accadendo si ribellarono e finirono “infoibati” e uccisi anch’essi per il solo torto di difendere altri italiani.


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Sullo sfondo quelle migliaia di morti che scomparvero nel nulla, ma anche dal ricordo collettivo, come non fossero mai esistiti, dimenticati. Così come per almeno un trentennio furono volutamente ghettizzati e dispersi oltre 300mila profughi giuliani e dalmati costretti a scappare lasciando tutto pur di rifugiarsi in Italia dove spesso si ritrovarono poi profughi in patria, odiati, emarginati, reietti.

Moltissimi di loro presero allora la via del mare fino alla lontana Australia, le Americhe, la Nuova Zelanda. Ne ho conosciuti tanti, di prima e seconda generazione, di quelli che – a Melbourne, a Sydney, ad Adelaide – quarant’anni dopo più che italiano parlavano ancora veneto e ricordavano tutto di Zara, di Fiume, di Pola.


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Città – soprattutto Zara e Pola – italiane e veneziane da secoli, eppure senza che per loro valesse il principio dell’appartenenza e maggioranza etnica che formalmente doveva essere alla base dei trattati di pace per fissare i nuovi confini.

Tante, troppe le pagine dimenticate: i giorni della “liberazione” di Trieste, la vergognosa capitolazione degli alleati davanti ai titini nel 1945, la repressione anti-italiana di un decennio, i morti per strada ancora nel 1954 finché, finalmente, almeno Trieste tornò ad essere italiana.

Un incubo, riassunto da migliaia di testimonianze, dai numeri, dalla tragica realtà di quegli anni che uscì dall’oblio grazie al presidente Ciampi e ad una legge – quella del Giorno del Ricordo – fortemente voluta da un deputato di Alleanza Nazionale di Trieste, Roberto Menia, votata poi da tutti tranne che da Rifondazione comunista e un manipolo di comunisti ultrà.

Una riparazione tardiva, ma che almeno ha dato una voce alle migliaia di morti dimenticati anche perché la vergogna è poi continuata negli anni, per esempio firmando nel 1975 il Trattato di Osimo con la Jugoslavia (che si sarebbe dissolta poco dopo) con il quale le ultime speranze ed i diritti della comunità italiana nella Zona B (ovvero soprattutto in Istria) furono negati per sempre.

Non solo: neppure quel trattato è stato rispettato, perché Slovenia e Croazia non lo hanno direttamente sottoscritto e quindi neppure formalmente riconosciuto. Se oggi in Italia, nelle zone al confine con la Slovenia, il bilinguismo è un fatto riconosciuto e tutelato, basta recarsi a Pola o a Capodistria per non trovare più nulla di italiano, né un toponimo né un ricordo.

Chi va in vacanza in Dalmazia neppure sa quello che lì hanno sofferto le genti italiane; nessuno ricorda che a Pola dei 32mila residenti fuggirono in 28mila prima e dopo il 1947, quando gli alleati imposero un confine assurdo che divideva le case, le piazze, i cimiteri. La Jugoslavia ebbe quasi tutto, l’Italia solo le briciole, e comunque ci vollero altri dieci anni e tanti altri morti perché almeno Trieste, pur mutilata nel suo territorio e circondata dalla Slovenia, fosse riammessa alla madrepatria.

Pochi sanno cosa successe in quella città soprattutto nei primi 42 giorni di occupazione titina, con migliaia di persone sparite ed uccise sotto il distratto controllo degli alleati, che consideravano a tutti gli effetti gli italiani come nemici, ma ancora più avanti quando era reato esporre un tricolore e ancora dieci anni dopo la polizia (inglese) del “Territorio libero di Trieste” sparava ad altezza d’uomo contro i dimostranti italiani.

Ecco perché il “Giorno del Ricordo” ha almeno fatto un po’ di giustizia, di memoria, anche se ancora questo passato tragico non è condiviso e lo si è visto ancora pochi giorni fa quando è stato profanato il monumento alla foiba di Basovizza, dove i corpi dei cadaveri straziati si contarono a metri cubi e non a numero, nell’impossibilità di identificare perfino i resti degli “infoibati”.

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Tags: Trieste


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