GUERRA DELL’ENERGIA/ Così la “trappola” di Big Oil può far male a Russia, Cina e India

- Andrea Pomella

Il fronte più importante sul quale si combatte la guerra in Ucraina è quello dell’energia. Che apre scenari geopolitici e paradigmi produttivi davvero dirompenti

russia (LaPresse)

Il fronte più importante sul quale si combatte la guerra in Ucraina è quello energetico, che a quanto pare è arrivato al suo punto più critico. La decisione dei paesi del G7 di introdurre un price cap al prezzo del petrolio russo e la conseguente interruzione dell’attività del gasdotto North Stream 1 segnano l’irreversibile decoupling fra le economie occidentali e i produttori di petrolio e gas russi.

La portata di questa svolta nel conflitto russo-ucraino è facilmente comprensibile se messa in relazione alla minaccia degli Stati Uniti di imporre sanzioni a chiunque decidesse di acquistare il petrolio e il gas russo ad un prezzo superiore al price cap, una decisione che renderebbe lo status della Russia assimilabile a quello dell’Iran e che potrebbe impattare anche sull’economia cinese e indiana, producendo una frattura ancora più profonda fra quelli che si stanno configurando come veri e propri blocchi energetici e di approvvigionamento.

Una situazione inedita che si misura anche nel sorpasso, avvenuto per la prima volta questa estate, delle esportazioni americane di gas naturale verso l’Europa nei confronti di quelle russe. Infatti, gli Stati Uniti si avviano a rifornire i Paesi europei con 15 miliardi di metri cubi di gas naturale liquefatto, che entro il 2030 dovranno arrivare a 50 miliardi.

L’instabilità geopolitica ha portato a guadagni colossali per i player del settore. Oltre ai ricavi eccezionali registrati sul Ttf, il mercato del gas di Amsterdam, dove i future del gas con scadenza a settembre hanno raggiunto i 200 euro per megawattora, si aggiungono quelli delle super major del petrolio e dal gas, che hanno raggiunto utili colossali, arrivando a 50 miliardi di dollari nel secondo trimetre dell’anno.

Una festa cui sta partecipando Gazprom, la compagnia energetica di Stato della Federazione Russa, che con prezzi 10 volte più alti di quelli registrati nel 2021 ha raggiunto un utile netto record di 41,3 miliardi di dollari nella prima metà di quest’anno. Guadagni mai registrati prima che, però, potrebbero rappresentare il canto del cigno dell’industria petrolifera, come sostengono gli analisti di Bloomberg, che da luglio hanno avviato una serie di ricerche sul mercato dei combustibili fossili.

Grazie a una spesa in conto capitale molto bassa, i colossi dell’industria petrolifera hanno raggiunto profitti non raggiunti neanche dopo la crisi del 2007-2008. A ben vedere la strutturale mancanza di investimenti in infrastrutture e impianti, che da tempo ha caratterizzato l’industria petrolifera, potrebbe avere una spiegazione di tipo strategico, che unita al peso dell’inflazione tratteggia uno scenario in cui Big Oil si sta preparando alla grande transizione dei prossimi anni, che vedrà il passaggio dalle molecole di idrocarburi agli elettroni. Una transizione che la guerra in Ucraina sta accelerando e che vede nel settore finanziario e nei grandi player tecnologici i loro protagonisti principali.

Tutte le grandi transizioni energetiche del passato hanno visto nel cambiamento tecnologico e nella disponibilità di ingenti investimenti l’innesco principale. In questa fase, come nella fine del XIX secolo, osserviamo l’azione di “forze storiche” che agiscono all’insegna del cambio di paradigma produttivo ed energetico. In un quadro in cui all’accresciuta sensibilità per il cambiamento climatico aggiungiamo la competizione geopolitica la transizione energetica assume un ruolo dirompente per gli equilibri futuri.

La Russia e tutti i paesi produttori di idrocarburi potrebbero pagare a caro prezzo la loro incapacità di diversificare le proprie economie e ridurre la loro dipendenza dalle esportazioni di petrolio e gas. Una situazione che riproduce su una scala ancora più grande gli effetti del contro shock petrolifero dell’85-86 – quando, cioè, gli Stati Uniti convinsero l’Arabia Saudita ad aumentare la produzione di greggio – che  oltre ad accelerare la crisi irreversibile dell’Urss ridimensionò fortemente le aspirazioni dei paesi produttori di petrolio, che dopo il processo di decolonizzazione e le crisi petrolifere del ’73 e del ’79 provarono a ricalibrare a proprio vantaggio i rapporti di forza con i paesi occidentali.

Dalla Prima guerra mondiale in poi la geopolitica dell’energia, e segnatamente del petrolio, ha rappresentato uno dei driver principali della dinamica delle relazioni internazionali. Detto altrimenti, gran parte dei conflitti del XX secolo – Seconda guerra mondiale inclusa, in cui la poca disponibilità di riserve di petrolio arrestò l’avanzata delle divisioni del Terzo Reich – sono stati fatti per il controllo del petrolio, ma ora le cose sembrano cambiate.

Guardando la competizione geopolitica da una prospettiva che privilegia la questione energetica, la guerra in Ucraina appare come la prima guerra fatta per liberarsi dalla dipendenza dai produttori di petrolio e gas. Un conflitto che alimenta la schumpeteriana distruzione creatrice che per l’economista austriaco è il motore del “processo di mutazione industriale che rivoluziona incessantemente la struttura economica dall’interno, distruggendo senza sosta quella vecchia e creando sempre una nuova”, che fra i vinti annovererà i Paesi che non saranno stati in grado di avviare la transizione verso un nuovo paradigma energetico.

Se assumiamo questa prospettiva, l’instabilità del mercato del petrolio con cui stiamo facendo i conti è un elemento strutturale di un processo che si è prima avviato nel 2004, quando India e Cina hanno iniziato a dispiegare la propria capacità produttiva, aumentando così la fame di energia, poi è continuato con la crisi del gas del 2009, quando la Russia interruppe i riformamenti di gas per l’Europa a seguito di una disputa contrattuale con l’Ucraina, e ha palesato tutte le sue criticità durante la pandemia, quando i lockdown e l’interruzione della catena globale di approvvigionamento aveva portato al crollo del prezzo del greggio.

Un processo che coglie impreparati i governi che non hanno compreso cosa comporta un salto di paradigma produttivo ed energetico, ma che farà la fortuna di chi ha puntato sulle fonti d’energia rinnovabile e le tecnologie ad esse collegate.

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