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Home » Esteri » Medio Oriente » GUERRA IN MEDIO ORIENTE/ Gaza e Libano, Houthi e Iran: il doppio piano di Israele e Trump

  • Medio Oriente
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GUERRA IN MEDIO ORIENTE/ Gaza e Libano, Houthi e Iran: il doppio piano di Israele e Trump

Int. Filippo Landi
Pubblicato 31 Marzo 2025
Bambina sfollata nel bagagliaio di un'auto dopo l'invasione israeliana (Ansa)

Bambina sfollata nel bagagliaio di un'auto dopo l'invasione israeliana (Ansa)

A Gaza, Israele pensa a deportazioni forzate, ma anche all’esilio volontario. E sull’Iran decide soltanto Trump. Problemi tra Israele e Libano

Una possibile nuova tregua, gli attacchi agli Houthi e in Libano, le incursioni di IDF e coloni in Cisgiordania. Ma anche l’Iran. I fronti della guerra di Israele sono rimasti quelli di prima, da nessuna parte la situazione è veramente risolta.

E mentre il governo Netanyahu pensa ancora alla deportazione dei palestinesi con un piano che prevede un allontanamento volontario ma anche trasferimenti forzati, gli USA, spiega Filippo Landi, già corrispondente RAI da Gerusalemme e inviato del Tg1 Esteri, hanno avocato a sé la guerra con gli Houthi, escludendo quasi gli israeliani da questo dossier per mandare un messaggio chiaro all’Iran: o si tratta sul nucleare o non andremo tanto per il sottile.


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Neppure sul fronte Libano Israele è tranquillo: vuole che Hezbollah confluisca nell’esercito libanese, mentre il gruppo filoiraniano tesse la tela del consenso aiutando le popolazioni del sud a risollevarsi.

Hamas si dice disposta a liberare degli ostaggi in cambio di una tregua per la fine del Ramadan. La trattativa per un nuovo cessate il fuoco è ripresa davvero o, nella sostanza, rimane bloccata?


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L’unica cosa certa è che c’è un’iniziativa egiziana, un tentativo che si colloca a metà fra l’accordo precedente, quello che prevedeva l’avvio di una seconda fase di negoziati per definire il futuro di Gaza, e una nuova proposta americana che chiedeva ad Hamas di liberare tutti i prigionieri senza definire nulla riguardo alla gestione della Striscia nel dopoguerra e ai tempi della trattativa.

Cosa chiede il Cairo?

Gli egiziani propongono di fare tabula rasa degli accordi precedenti, sottoscritti anche da loro, riproponendo la liberazione di 5 ostaggi a settimana in cambio della scarcerazione di detenuti palestinesi, riprendendo nel frattempo una trattativa sul futuro di Gaza.


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Un piano che può essere preso in considerazione?

È una formulazione molto incerta. Hamas ha dato la sua disponibilità, proprio in vista della fine del Ramadan, a una ripresa della liberazione dei prigionieri. Per la verità, aveva già offerto la liberazione degli ostaggi israeliani con nazionalità americana, ma questa era stata respinta da Israele.

Tel Aviv ha bloccato nuovamente gli aiuti umanitari e Gaza, in questi giorni teatro di proteste dei palestinesi, che se la sono presa anche con Hamas. Sta cambiando qualcosa?

Le proteste nascono dal totale blocco degli aiuti umanitari. Persino un ente dell’ONU come il World Food Programme (WFP), che non dispiace agli americani, ha dichiarato pubblicamente che la popolazione di Gaza fa la fame e vive una situazione intollerabile.

Va considerato, però, anche un elemento più politico: l’ANP di Abu Mazen cerca di candidarsi a una sua presenza a Gaza dopo la fine della guerra e, quindi, ha ritessuto i legami con la vecchia guardia ancora presente nella Striscia, per cercare di far emergere il malcontento della gente.

Da qui nascono gli slogan contro Hamas?

Sì. Alcune testimonianze, tuttavia, ci dicono che la maggioranza di chi è sceso in strada lo ha fatto senza un risvolto politico.

In questo contesto il piano per la deportazione dei palestinesi è ancora tenuto in considerazione? Si era parlato di trasferire i palestinesi in Somalia o in Etiopia, ora spunta l’Indonesia oppure si ipotizza di concentrarli in una tendopoli. Qual è la strategia di Israele?

Gli israeliani ci stanno pensando ancora seriamente. L’anno scorso, in aprile, avevano ottenuto il consenso del governo di Al Sisi per costruire un enorme campo a ridosso del confine di Rafah, in territorio egiziano.

Nella mentalità del ministro della Difesa Israel Katz e del ministro degli Affari palestinesi, Bezalel Smotrich, si aspetta la fine della guerra per spingere, a fini umanitari, la popolazione che non accetta volontariamente di andare via in un luogo dove verrebbero fornite loro delle tende.

Come sta funzionando l’ufficio aperto per i palestinesi che vogliono lasciare volontariamente Gaza?

È già all’opera e si è occupato dei primi 600 palestinesi, in genere malati e feriti, che hanno accettato di andarsene. Sono stati fatti uscire da Kerem Shalom. Alcuni, in possesso di una doppia nazionalità, sono stati condotti in aeroporto; altri, invece, sono stati portati al ponte di Allenby, al confine tra Palestina e Giordania, in virtù di visti rilasciati per il ricongiungimento familiare.

Più che fantasiosi discorsi che riguardano l’Indonesia o altri Paesi, ritorna la pianificazione dell’uscita dei palestinesi in Egitto, in Giordania o in Siria, anche contro la loro volontà. Il piano è duplice: ce n’è uno forzato, da attuare appena finisce la guerra, e uno volontario, che però nei numeri, al momento, è insignificante rispetto agli oltre 2 milioni di abitanti di Gaza.

Cisgiordania, Libano: la guerra è di fatto ancora aperta su più fronti. E si torna a parlare di attacchi all’Iran: Trump concede due mesi a Teheran per iniziare un negoziato sul nucleare, ma poi sposta i bombardieri nella zona dell’Oceano Indiano, facendo intendere che può usarli per colpire il territorio iraniano. Qual è la strategia complessiva di Israele e USA? E che ruolo hanno gli americani nella sua definizione?

Il ruolo statunitense riguardo al dossier Iran è abbastanza chiaro: i messaggi in chat (diventati pubblici) che si sono scambiati i dirigenti dell’amministrazione Trump al loro interno lo rendono evidente. Gli USA colpiscono gli Houthi in un modo che va ben al di là del pericolo che rappresentano per la navigazione commerciale: è un messaggio che l’amministrazione vuole dare all’Iran per far capire che non deve opporsi, attraverso le milizie collegate, a ciò che sta accadendo in Palestina, ma, nello stesso tempo, è anche un messaggio per evitare lo scontro diretto.

Su questo fronte gli americani hanno preso in mano la situazione e la gestiscono in prima persona?

Non c’è la pianificazione di un attacco all’Iran, Trump sa che il prezzo di quella guerra lo pagherebbero anche gli americani. Non è un caso che abbia avocato a sé la gestione del conflitto con gli Houthi: non ci sono più attacchi israeliani contro di loro. Il conflitto generalizzato, comunque, torna all’origine, alla Palestina e al Libano del Sud, dove agli israeliani preme che il nuovo presidente e il nuovo primo ministro procedano più velocemente a inglobare le milizie Hezbollah nella struttura militare libanese.

Perché questa fretta?

Si teme una reazione degli Hezbollah a quello che succede non lontano dal confine libanese: lo svuotamento dei campi profughi in Cisgiordania. Quello di Jenin è stato dichiarato dalla municipalità totalmente inagibile, non solo per la distruzione delle case da parte dell’esercito israeliano, ma anche per quella degli impianti di luce e acqua. Gli sfollati in quell’area sono diventati 60mila.

Ma Hezbollah si sta effettivamente riorganizzando? C’è il pericolo che torni a farsi sentire autonomamente oppure sono ancora troppo deboli per farlo?

Gli Hezbollah si sono riorganizzati rinsaldando il rapporto con la popolazione locale. Stremata dai bombardamenti, è stata aiutata economicamente perché rimanga nel sud del Paese. In secondo luogo, hanno ricostruito luoghi da utilizzare per proteggersi dagli attacchi.

Quello che sta accadendo in Libano non è solo una battaglia militare. Sui volantini lanciati dagli israeliani nella valle della Bekaa o a Tiro c’era scritto che gli attacchi erano motivati dalla presenza di Hezbollah, che ora, per contro, cerca di radicarsi ancora di più sul territorio. È una battaglia per mantenere il consenso.

(Paolo Rossetti)

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Tags: Donald TrumpBenjamin Netanyahu

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