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Home » Lavoro » I NUMERI DEL LAVORO/ I cambiamenti di lungo periodo che valgono più delle scelte politiche

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I NUMERI DEL LAVORO/ I cambiamenti di lungo periodo che valgono più delle scelte politiche

Giampaolo Montaletti
Pubblicato 4 Aprile 2024
(Pixabay)

(Pixabay)

Ieri Istat ha diffuso i dati sul mercato del lavoro relativi al mese di febbraio, che offrono degli interessanti spunti di riflessione

A febbraio 2024 sono aumentati sia gli occupati che i disoccupati, mentre calano gli inattivi. Lo comunica Istat, che ha pubblicato ieri i dati provvisori sul mercato del lavoro in Italia.

Gli occupati in più rispetto a gennaio 2024 sono 41mila. L’occupazione cresce fra gli uomini, i maggiori di 24 anni e gli occupati permanenti, mentre cala per donne, giovani e occupati a termine e autonomi.


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Sempre di più il mercato del lavoro vive un processo di stabilizzazione delle risorse umane considerate critiche per qualsiasi sviluppo futuro: rispetto a febbraio 2023 i lavoratori con contratto a termine sono passati da 3 milioni e 16 mila a 2 milioni e 817 mila (meno 199 mila), mentre i lavoratori a tempo indeterminato sono cresciuti di 331 mila unità, quindi c’è una crescita netta del tempo indeterminato che non riguarda solo processi di stabilizzazione. Se si guarda il lavoro dipendente, la quota di tempo indeterminato ha raggiunto l’85% dell’occupazione dipendente e il 67,2% dell’occupazione totale.


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Il recupero delle quote di occupazione stabile è iniziato nel febbraio del 2022, dopo una caduta che è iniziata nel 2016. Negli anni fra il 2004 e il 2016 i valori della quota di dipendenti stabili oscillavano fra l’86 e l’88%; difficile tornare a quei livelli, con i cambiamenti organizzativi in settori come il turismo e più in generale nel terziario, ma la quota dell’86% non è irraggiungibile se il mercato continuerà a mantenersi sotto pressione.

I lavoratori indipendenti (professionisti, imprenditori, autonomi di vario tipo…) sono scesi sotto i 5 milioni (4 milioni e 998 mila), perdendo 53.000 unità in un anno (-1,1%). La quota di indipendenti sul totale degli occupati si attesta al 21%, mentre nel febbraio 2023 era al 21,5%, nel 2014 era 24,6% mentre nel 2004 era al 28%. La caduta della quota è quindi lenta ma inesorabile nel lungo periodo e anche le facilitazioni fiscali non sembrano in grado di esercitare un’inversione di tendenza di questo parametro. Appare evidente che il processo di stabilizzazione che caratterizza questi due anni di crescita del mercato è in grado di attrarre maggiormente verso il lavoro dipendente, ma occorreranno dati più approfonditi per capire quanti indipendenti siano realmente autonomi e quale sia il livello di autonomia che rende o non desiderabile il passaggio al lavoro dipendente; Inps, ad esempio, segnala che nel 2022 commercianti e artigiani erano complessivamente 3.626 mila, con i commercianti stabili e gli artigiani in calo. Probabilmente gli artigiani continueranno a calare, spinti da fattori demografici, e i commercianti potrebbero tenere od oscillare seguendo la congiuntura, ma sull’altro 1,4 milioni di indipendenti resta difficile fare una vera valutazione, anche perché ci sono poche informazioni sui passaggi dal lavoro dipendente al lavoro autonomo, che non mancano soprattutto nei settori a elevata innovazione. Per i prossimi anni è ragionevole aspettarsi un calo percentuale della quota di lavoro autonomo di 0,8 o 1 punto ogni due anni.


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La corsa verso la stabilizzazione del mercato per classe di età, tenendo anche conto delle variazioni demografiche, sembra non riguardare i giovani; nella classe di età 15-34 anni al netto degli effetti demografici, c’e’ un leggero calo annuale dello 0,2% e un incremento degli inattivi di 0,4 punti.

Stante la battuta d’arresto dei giovani, continua a crescere invece la partecipazione degli over 50, che contano ormai 9.559 mila occupati (questo sì che è un massimo storico negli ultimi 20 anni), con un tasso di occupazione che è passato dal 22,2% del febbraio 2004 al 34,3% del febbraio 2024. In questa fascia di età, che, ricordiamolo, contiene anche tutti i pensionati, la progressione è stata talmente lenta e graduale che probabilmente dipende da un netto miglioramento delle condizioni di vita della popolazione più che dalle riforme e controriforme pensionistiche. La crescita del tasso di occupazione è stata interrotta solo dall’impatto della pandemia a cavallo tra 2020 e 2021.

Le differenze di genere continuano a sentirsi e anche l’incremento relativo dell’1,6% di occupazione delle femmine non è bastato a colmare il divario nel tasso di occupazione che resta sopra il 18% a favore dei maschi. Ricordiamo che il divario nel tasso di occupazione fra maschi e femmine 15-64 anni era del 24% medio nel 2004 ed è sceso sotto il 19% nel 2012, e bene o male oscilla fra il 17 e il 18% da circa 12 anni.

Insomma, un andamento congiunturale dove sembrano prevalere gli impatti delle tendenze strutturali di lungo periodo (più over 50 al lavoro perché stanno meglio, meno autonomi, donne sempre distanti dagli uomini, lenta riorganizzazione del terziario) più che delle politiche del lavoro che in Italia hanno sempre una vita talmente breve da poter essere classificate come fenomeni congiunturali.

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