I NUMERI DELLE PENSIONI/ Previdenza complementare, il secondo pilastro è ancora incompleto

- Giuliano Cazzola

La Commissione di vigilanza sui fondi pensione ha presentato i dati del 2023, utili per capire lo stato dell'arte della previdenza complementare

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La Commissione di vigilanza sui fondi pensione (Covip) invia puntualmente segnali di esistenza in vita ai Governi che se sono dimenticati al punto di completarne la governance. Ma tutto sommato questa inerzia sarebbe un problema minore, perché l’Autorità continua a esercitare le sue funzioni.

La questione vera riguarda la materia della previdenza complementare che da circa 25 anni non riceve l’attenzione che meriterebbe da parte dei Governi e del Parlamento. L’unico intervento di un certo rilievo da annoverare in questo quarto di secolo è un ragguardevole incremento del prelievo sui rendimenti che non è mai stato modificato (era pari all’11%; si diceva che doveva essere ridotto al 6%; venne elevato al 20%).

In questi giorni la Covip ha aggiornato le statistiche a tutto il 2023; il che dimostra una valida efficienza amministrativa che non sempre si riscontra altrove. E – grazie a Dio – i dati sono preceduti, in generale, da un segno positivo nei confronti dell’anno precedente.

Alla fine del 2023, le posizioni aperte presso le forme pensionistiche complementari (fondi negoziali o chiusi, fondi aperti e Pip), sono 10,7 milioni, il 4% in più rispetto alla fine del 2022. A tali posizioni, che includono anche quelle di coloro che aderiscono contemporaneamente a più forme, corrisponde un totale degli iscritti di 9,610 milioni (+4%).

I fondi negoziali registrano un incremento di 211.000 posizioni rispetto alla fine dell’anno precedente (+5,5%), per un totale che supera i 4 milioni. In proposito merita una particolare attenzione la circostanza che gli incrementi maggiori sono dipesi da alcune innovazioni introdotte dalla contrattazione collettiva: nel settore edile (+87.700 posizioni), in conseguenza del versamento di un contributo, ancorché di importo modesto, a carico del solo datore di lavoro; nel fondo del pubblico impiego (+37.600 posizioni), attraverso l’adesione anche tramite silenzio-assenso per i lavoratori di nuova assunzione. Si aggiungono poi, nel fondo destinato al settore del commercio, turismo e servizi 15.700 posizioni in più.

Nelle forme pensionistiche di mercato, si contano 109.000 posizioni in più nei fondi aperti (+5,9%) e 83.000 in più nei Pip (+2,2%); alla fine dell’anno, il totale delle posizioni in essere in tali forme è pari, rispettivamente, a 1,950 milioni e 3,781 milioni. Quest’ultimo dato riferito alle posizioni individuali è sorprendente perché si avvicina sempre più a quello dei fondi pensione (il tipico prodotto della contrattazione collettiva) tanto più che tra i sottoscrittori di queste polizze è prevalente il numero dei lavoratori dipendenti, a conferma di un’esigenza di previdenza complementare (secondo pilastro) che non trova adeguata risposta attraverso la contrattazione collettiva. Nel 2022 ai Pip “nuovi” (2,243 milioni) era iscritto il doppio dei lavoratori dipendenti aderente ai fondi aperti (1,007 milioni). Sommando le ultime due cifre si otteneva un notevole ricorso all’uso individuale della previdenza privata che resta un fenomeno confermato. Non ci sono dati aggiornati relativi ai fondi preesistenti.

Le risorse destinate alle prestazioni ammontano a 222,6 miliardi di euro, in crescita dell’8,2% rispetto ai 205,6 miliardi di fine 2022. Circa i tre quinti dell’incremento è dipeso dal miglioramento dei corsi dei titoli in portafoglio; il resto è dovuto ai flussi contributivi al netto delle uscite. L’attivo netto è di 67,9 miliardi di euro nei fondi negoziali, aumentato dell’11,1% rispetto alla fine dell’anno precedente; esso si attesta a 32,6 miliardi nei fondi aperti e a 49,9 miliardi nei Pip, rispettivamente, il 16,3% e il 9,8% in più nel confronto con la fine del 2022. Nel corso del 2023 l’ammontare dei contributi incassati da fondi negoziali, fondi aperti e Pip è pari a 14,7 miliardi di euro, in crescita del 5,7% sul 2022. L’incremento risulta del 7,7% nei fondi negoziali e del 7,4% nei fondi aperti, mentre è minore nei Pip (2,3%).

Quanto ai rendimenti, nel 2023 tutte le tipologie di forme pensionistiche e di comparti hanno registrato in media risultati positivi, con valori più elevati per le gestioni con una maggiore esposizione azionaria. Per i comparti azionari si riscontrano rendimenti in media pari al 10% nei fondi negoziali, all’11,3% nei fondi aperti e all’11,4% nei Pip. Nelle linee bilanciate i risultati sono in media pari al 6,9% nei fondi negoziali, all’8,3% nei fondi aperti e al 7,1% nei Pip; più contenuti sono i rendimenti dei comparti obbligazionari e garantiti.

Valutando i rendimenti su orizzonti temporali più coerenti con le finalità del risparmio previdenziale, negli ultimi dieci anni (da inizio 2014 a fine 2023) i rendimenti medi annui composti delle linee a maggiore contenuto azionario si collocano intorno al 4-4,5% per tutte le tipologie di forme pensionistiche; per le linee bilanciate, i rendimenti medi sono compresi tra il 2 e il 3 per cento. Le linee garantite e quelle obbligazionarie mostrano invece rendimenti medi vicini allo zero o di poco superiori; le gestioni separate di ramo I dei Pip, che contabilizzano le attività al costo storico e non al valore di mercato, ottengono un rendimento dell’1,8%. In sostanza il rendimento delle forme pensionistiche ha retto e talvolta superato la sfida con il Tfr la cui rivalutazione ope legis, nello stesso periodo, è risultata pari al 2,4 %. Tutti i comparti azionari e anche una buona parte dei bilanciati mostrano rendimenti più elevati rispetto agli altri e al Tfr. Per ciascuna tipologia di linea di investimento, i fondi negoziali mostrano nel complesso una dispersione dei rendimenti dei singoli comparti inferiore a quella che registrano fondi aperti e Pip.

Non risultano aggiornamenti a proposito di alcuni aspetti critici delle forme di previdenza complementare. Ma quelli presenti nell’ultimo rapporto indicano una tendenza che è ormai strutturale.

Le anticipazioni (che costituiscono un motivo di competizione con il Tfr e che non facilitano il ruolo della finanza previdenziale) sono risultate pari a 2,3 miliardi, di cui 939 milioni nei fondi negoziali e 768 milioni in quelli preesistenti. Tra le causali, spiccano l’acquisto o la ristrutturazione della prima casa di abitazione, con erogazioni di 1,1 miliardi di euro e un importo medio di 30mila euro e quella per motivi non riconducibili a una specifica fattispecie, 1,1 miliardi in totale per un importo medio di 8,4 mila euro.

Per i riscatti, 2 miliardi di euro in totale, la maggior parte dei quali si è concentrata nei fondi negoziali con 850 milioni e nei fondi preesistenti con 677 milioni, la quota maggiore è formata da quelli totali: 1,6 miliardi di euro per un importo medio di 15.800 euro. Le rendite integrative temporanee anticipate (Rita) sono aumentate: l’erogazione complessiva è stata di 1,6 miliardi di euro (357 milioni in più rispetto al 2021), per un importo medio di 57mila euro; la gran parte delle erogazioni, 1,4 miliardi di euro (306 milioni in più sul 2021), si è concentrata nei fondi preesistenti. Sono state 28.800 le posizioni interessate da erogazioni di Rita, in crescita rispetto alle 22.500 dell’anno precedente; di queste, 22.200 hanno riguardato l’intero montante accumulato

Da alcuni anni, pur in presenza di un costante aumento degli scritti, è ragguardevole (superiore a 2 milioni di “anime morte”) il numero di coloro che hanno cessato di versare i contributi.

È entrato ormai a pieno regime il meccanismo delle rendite integrative temporanee anticipate (Rita), parziali e totali; negli anni scorsi l’erogazione ha totalizzato 466 milioni di euro (385 milioni in più rispetto al 2018), di cui circa 379 a titolo di rendita totale; la gran parte, 433 milioni, è concentrata nei fondi preesistenti. Le prestazioni pensionistiche in capitale hanno totalizzato 3 miliardi di euro.

Nonostante le promesse, la previdenza complementare non è un prodotto per giovani. Pensata per compensare le future generazioni dei tagli apportati ai loro trattamenti allo scopo di mantenere una transizione sostenibile per quelle operanti sul mercato del lavoro, la previdenza complementare ha subito uno sviamento della funzione principale. Per classe di età degli iscritti, il 18,8% ha meno di 35 anni mentre il 48,9% appartiene alla fascia di età centrale (35-54 anni) e il 32,3% ha almeno 55 anni. Dal 2018 al 2022 si è assistito a un progressivo spostamento dalle classi di età centrali a favore di quelle più anziane, pari a circa cinque punti percentuali; la classe più giovane (sotto i 35 anni di età) registra una crescita di 1,1 punti percentuali. Si tratta però in prevalenza di familiari a carico degli iscritti.

In conclusione, pur essendo le risorse destinate alle prestazioni corrispondenti al 10,8 % del Pil e al 4% delle attività finanziarie delle famiglie italiane, le previdenza complementare più che svolgere un ruolo di “secondo pilastro privato” e di carattere collettivo/contrattuale, è configurabile come una forma di investimento finanziario, sufficientemente garantita e agevolata sul piano fiscale, che consente, inoltre, di avere disponibile (come contribuzione e con le relative previste possibilità di anticipazioni più ampie) un’erogazione (il Tfr) nel corso e non alla fine del rapporto di lavoro, piuttosto che una prestazione che svolge un ruolo complementare del trattamento obbligatorio.

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