Il nostro istituto di statistica ci comunica che nel mese di maggio l’occupazione è cresciuta di 67mila unità rispetto al mese precedente e di 92mila su base annua. Due dati sono significativi: il dato tendenziale su base annua torna a crescere dopo tre trimestri stagnanti se non proprio negativi e il tasso di occupazione, pur rimanendo 10 punti al di sotto della media europea, raggiunge il 59% sulla popolazione in età di lavoro.
Gli esponenti del Governo esultano: merito del Decreto dignità, sottolineando in particolare l’incremento dei contratti a tempo indeterminato, rispetto a quelli a termine. Legittima soddisfazione, anche se il dato, come già evidenziato dal recente bollettino di Istat, Anpal e Inps, è influenzato dall’effetto incentivi per la trasformazione dei contratti a termine in tempo indeterminato. Il Decreto dignità infatti ha introdotto delle soglie per l’utilizzo temporale dei contratti a termine, con un limite di 24 mesi, e gli sgravi contributivi triennali per le imprese che li riconvertivano in tempo indeterminato. Questi ultimi introdotti nella fase di riconversione in legge sulla base di un emendamento proposto dalle opposizioni nella commissione parlamentare.
Ciò ha prodotto un effetto contraddittorio. Una parte delle imprese ha deciso di stabilizzare i lavoratori a termine sfruttando gli incentivi (227mila unità secondo l’analisi del bollettino richiamato). Altre imprese hanno invece deciso di sostituire i lavoratori in scadenza con altri per evitare il vincolo della stabilizzazione, come evidenziato in una ricerca effettuata recentemente dalla Banca d’Italia. Esattamente come avvenne nel 2015, nella fase iniziale di attuazione del Jobs Act, quando gli sgravi contributivi triennali provocarono un balzo in avanti dei contratti a tempo indeterminato influenzato da oltre 400mila trasformazioni (che a parità di occupati aggiungono numeri ai contratti a tempo indeterminato sottraendoli a quelli a termine). Con l’esaurirsi degli incentivi, le dinamiche tornarono nella normalità e tutto ciò venne considerato impropriamente da molti commentatori, come il fallimento del Jobs Act.
Una valutazione degli esiti del Decreto dignità è ancora prematura. Come ho fatto in altre occasioni, mi permetto di sottolineare la sopravvalutazione dell’efficacia delle norme sui flussi reali del mercato del lavoro. Contrariamente a quanto si pensa, non esiste una relazione diretta tra il tasso di mobilità dei lavoratori e il numero dei contratti a termine, nel senso che tale mobilità, che coinvolge mediamente circa un terzo dei lavoratori occupati, riguarda persone con diverse tipologie di contratti.
Tutto questo dovrebbe far rileggere in un’altra ottica il tema della stabilizzazione, soprattutto nei comparti dei servizi, in molti dei quali il tasso di mobilità annuo riguarda il 40% degli occupati. Diversamente sarebbe necessario prestare attenzione all’evidenza di una crescita dell’occupazione che si mantiene da alcuni anni al di sopra dell’incremento del ricchezza nazionale. Un dato in sé positivo, ma che inevitabilmente comporta un decremento della produttività, e dei salari percepiti, ovvero della media delle ore lavorate procapite.
Infatti, i numeri ci dicono che in termini di occupati siamo tornati al di sopra dei numeri precedenti la crisi. Addirittura raggiungendo il record storico del numero dei lavoratori dipendenti. Ma questo non è avvenuto per la ricchezza prodotta che è ancora al di sotto dei livelli raggiunti nel 2008. In poche parole, è aumentato il numero dei commensali, ma la torta è diminuita. Se si analizzano le dinamiche settoriali e territoriali non è difficile comprendere la contraddizione. La precarietà del lavoro, quella vera, e da non assimilare genericamente al numero dei contratti a termine, dipende dalla debolezza dei comparti dei servizi e dalla pesante arretratezza del nostro Meridione.