La società esige perfezione, ma cadere è umano. Nello sport come nella vita, sbagliare non è vergogna: è il motore del progresso.
Che noia sentire tutti i giornali parlare con delusione delle ultime performance dei nostri tennisti! Come se vincere fosse un obbligo e perdere una disfatta. I doppi arrivati secondi (Paolini-Errani e Vavassori-Bolelli) e l’eliminazione di Sinner ad Halle sono stati trattati con disinvolta superficialità, come una iattura, non capendo che l’agonismo non è per forza dominio, e non capendo quanto importanti e formativi siano le cadute e gli errori.
Nel 1935, Karl Popper pubblicò la sua opera fondamentale, *Logik der Forschung* (La logica della scoperta scientifica), che gettò le basi del suo pensiero epistemologico. In questo libro, Popper introduce l’idea che la conoscenza umana sia intrinsecamente imperfetta e soggetta a errore. Non esiste una verità ultima e definitiva, e le teorie scientifiche sono sempre provvisorie, in attesa di essere confutate.
Insomma, scrisse un elogio dell’errore, come tramite per il progresso della scienza: nessuna scoperta si fa se le precedenti sono ritenute dei dogmi. Quanti esperimenti scientifici che abbiamo fatto hanno portato risultati diversi da quelli delle nostre ipotesi, che erano sbagliate: errore? Sì, sano e utile. Tanto che poi pubblichiamo i risultati che ci smentiscono le ipotesi, pronti a farne altre.
Lo stesso vale nella vita quotidiana e nello sport: lasciateci il diritto a sbagliare, cioè il diritto a non vergognarci dei nostri errori umani!
Albert Marcuse puntava il dito contro la società attuale, chiamandola società performativa, competitiva, in cui tutti dobbiamo indossare una faccia felice e semiperfetta, quando invece dentro sappiamo di essere pieni di dubbi e di fare tanti errori. Ma gli errori nella società della perfezione non sono contemplati. Mentre noi reclamiamo il diritto all’errore.
Che non è il diritto a essere colpevolmente distratti o incapaci quando il nostro lavoro richiede, per la salvaguardia nostra e degli altri, attenzione e competenza. Ma non esiste competenza che non abbia delle falle. Questo dobbiamo riconoscerlo a noi e agli altri.
Dobbiamo riconoscerlo in primis a noi, perché altrimenti finiamo in una vita riduttiva, in cui pretendiamo da noi la perfezione per essere accettati, pretendiamo di non fallire e di non farci accorgere dagli altri che falliamo. Tanto che arrivare numero due a una competizione sportiva di carattere internazionale viene considerato un fallimento. È evidente nello sport, dove arrivare secondo produce tristezza, ma è evidente in qualsiasi professione e nella vita familiare: ogni performance che sveli la nostra imperfezione è oggi da evitare e aborrire.
Così viviamo in questo mondo di facciata, come avrebbe scritto Pirandello, in cui dobbiamo mostrare agli altri solo una faccia lucida e vincente. Probabilmente perché è un mondo che, già dalla culla, non ti accetta se sgarri, se nella crescita non segui a puntino le presunte tappe dello sviluppo, se hai difficoltà in qualche materia a scuola e metti in imbarazzo non tanto te quanto i tuoi genitori, che si domandano perché il loro figlio non è un genio (“È passato a tutti gli esami, da quello di diagnosi prenatale a quello dell’udito e del colesterolo… insomma, mi avevano garantito la perfezione”).
E qual è la conseguenza di un mondo che ti accetta solo come numero uno? L’insoddisfazione, la vergogna, e in molti casi la depressione.
Viviamo in un mondo di facciata, dove la disabilità non è contemplata, il discostarsi dalla norma non trova diritto di cittadinanza, come spiegava il prof. Maroteaux, grande studioso di nanismo, che osservava che ormai non nascono più bambini con questo problema, e non perché non vengano concepiti.
Invece la caduta e l’errore sono fondamentali nella vita: un bambino impara a camminare solo se ogni tanto cade! Via le facce da funerale se il nostro campione arriva secondo (o ultimo): ci ha provato, ha dato il possibile, o in quel momento era scarico: va bene così. E via le facce da funerale se noi sbagliamo: dobbiamo riparare l’errore e riconoscerlo, e accettare che possa accadere. E imparare dall’errore.
Ma se non lo ammettiamo, non impariamo un bel nulla. Se ci danno un 4 a scuola o ci bocciano a un esame in università, siamo più pronti a reclamare, a vergognarci… oppure a chiedere consiglio su come andare meglio? E che nessuno osi darci dei falliti: critichino l’errore, ma non chi sbaglia perché ha dei limiti.
Reclamiamo perciò un sano diritto all’errore, cioè a non nasconderlo, a non vergognarcene, ed eventualmente a riparare. Il diritto all’errore deve essere riconosciuto anche fondamentale nell’agonismo sportivo: se Sinner non perde mai, non impara la logica del cambiamento e del miglioramento, si monterebbe la testa e crollerebbe al minimo insuccesso; ma poi, chi ha detto che Sinner (o qualunque altro sportivo) debba essere obbligato al trono di numero uno? Perché viviamo in un mondo che insegna la competizione, l’arrivismo e la lotta come leggi e unico comportamento. No, non è così che il mondo può crescere: così crea solo insoddisfazione e patologia mentale.
