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Home » Impresa » CREDITI IMPRESE/ Così il decreto-beffa può far chiudere le Pmi

  • Impresa

CREDITI IMPRESE/ Così il decreto-beffa può far chiudere le Pmi

Giuseppe Pennisi
Pubblicato 8 Aprile 2013
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Infophoto

L’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del Decreto Legge per lo sblocco dei crediti delle imprese verso la Pa può nascondere delle insidie, come spiega GIUSEPPE PENNISI

L’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del Decreto Legge recante “Disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonché in materia di versamento dei tributi degli enti locali” (il cui testo, quale emendato durante la lunga seduta del CdM, è qui disponibile) deve essere considerato, al tempo stesso, come “l’ultimo atto” del Governo Monti e come il “suo testamento politico”. “Ultimo atto” in quanto i tempi stringono perché l’Italia abbia un Governo: il mandato dei “saggi” (sarebbe utile che il Quirinale smentisca le voci secondo cui ciascun “saggio” verrebbe compensato con 100.000 euro) scade l’11 aprile ed è auspicabile che, in linea con la prassi delle democrazie parlamentari, un nuovo Governo sia in carica prima dell’inizio delle votazioni, il 18 aprile, per l’elezione del Capo Stato. Un “testamento politico” perché dopo una serie di provvedimenti di austerità che hanno portato al 52% del Pil la pressione tributaria e contributiva il Governo fornisce una boccata d’ossigeno alle imprese e traccia un percorso perché il prossimo Esecutivo e il Parlamento appena eletto continuino su questa strada, facendo, però, le opportune correzioni di tiro.


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Ce ne sarà bisogno. Come ha illustrato ieri su queste pagine Claudio Borghi Aquilini, l’insieme di misure rischiano di diventare “un bluff”. Non si tratta di un “provvedimento chiaro, semplice, veloce”, come ha annunciato, in toni quasi da campagna elettorale, il Presidente del Consiglio nella conferenza stampa che ha fatto seguito alla riunione del Governo.


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Lo stesso comunicato emesso al termine della seduta mostra che le misure riguardano meno della metà del problema ove non meno di un terzo (40 miliardi su un arco di due anni invece dei 91 miliardi accertati dalla Banca d’Italia, a cui aggiungere – ma in materia c’è forte reticenza – circa 60 miliardi di debiti verso i fornitori del “capitalismo municipale, provinciale e regionale”, ossia SpA controllate dagli enti locali). Il percorso adottato poi è più complicato di altri proposti in questi ultimi mesi, quale quello del gruppo di ricerca Astrid coordinato da Franco Bassanini e Marcello Messori; alternative, come quella delineata, restano a disposizione del Parlamento per emendare ove necessario e possibile il decreto legge e del prossimo Governo per le misure aggiuntive da adottare entro settembre.


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Occorre, al tempo stesso, dare atto al Governo Monti di avere cercato di aprire il solco di una soluzione a un problema che si trascina da anni, incancrenendosi man mano che passava il tempo. La “brutta prassi” di ritardare i pagamenti è iniziata con il Governo Spadolini (ben tre decenni orsono), quando l’allora Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta introdusse, come strumento per controllare il disavanzo dei conti pubblici senza frenare la crescita, la dilatazione della “competenza” accompagnata dalla restrizione della “cassa” tramite il rinvio dei pagamenti – un marchingegno oggi non più possibile a ragione del “bilancio di cassa” introdotto con la legge di contabilità e finanza pubblica n. 196 del 2009.


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In una prima fase, i fornitori (specialmente quelli di maggiori dimensioni) hanno risposto tenendo conto (nei prezzi offerti nella gare per beni e servizi intermedi della Pa) dei ritardi e, quindi, aumentando i prezzi, con danni per tutta la collettività. A poco a poco, il problema è dilagato, anche a ragione (Andreatta non poteva prevederlo) dei vincoli di finanza pubblica derivanti dalla partecipazione dell’Italia al tentativo di creazione di un’unione monetaria ancora incompleta, e ora traballante (Trattato di Maastricht, Patto di Crescita e di Stabilità, Fiscal Compact); mentre sino alla fine degli anni Novanta, i rinvii nei pagamenti da un esercizio di bilancio a un altro, venivano decisi dal Ministro del Tesoro e dai suoi stretti collaboratori e riguardavano grandi poste di grandi imprese, a poco a poco il livello decisionale si è spostato alle singoli amministrazioni centrali dello Stato, alle Regioni, alle Province, ai Comuni e alle loro SpA, nonché dai vertici politici (sotto la loro responsabilità politica) ai singoli dirigenti e funzionari.


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Il Decreto introduce due innovazioni significative: un allentamento temporaneo del “Patto di Stabilità Interno”; e responsabilità precise in capo sia degli enti locali, sia di dirigenti e funzionari. Da prova di una buona dose di equilibrismo del destreggiarsi con il Fiscal Compact. La procedura scelta per definire la priorità temporale dell’erogazione è cronologica, indubbiamente un criterio asettico ma che potrebbe essere discriminante nei confronti di chi è in stato di maggior bisogno: le piccole e medie imprese, i corpi intermedi della sussidiarietà – coloro, in effetti, a maggior rischio di chiusura e/o di procedure fallimentari, nonché di essere costretti a distruggere per sempre opportunità occupazionali. Una grande impresa può ridurre e ampliare l’organico, mentre una piccola entità quando chiude lo fa quasi sempre per sempre.


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Ciò non può non avere implicazioni sulle conseguenze economiche in termini di produzione di beni e servizi e di occupazione. Se in ultima istanza, le prime e le maggiori beneficiarie saranno le grandi imprese di costruzione per l’infrastrutturazione dell’Italia, i 40 miliardi non genereranno mezzo punto di Pil per le ragioni da me illustrate il 6 aprile sul quotidiano Avvenire, ma riusciranno a malapena a evitare un aggravarsi ulteriore della recessione.

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