Quando si affronta il tema della ricerca in Italia ci si imbatte, solo in parte giustamente, in un lungo elenco di limiti e difficoltà. Al primo posto c’è sempre e comunque il fatto che si spende poco, troppo poco. Poi c’è la mancanza di una vera politica industriale che sostenga i processi di innovazione. E non manca mai una disarmante lamentela sull’incapacità delle università italiane di sostenere le attività di sperimentazione nei più vasti campi della tecnologia. Tuttavia, in quella che possiamo chiamare la narrazione comune, c’è un’isola di salvezza: l’Italia sarebbe il Paese della creatività, della genialità individuale, della capacità di trovare soluzioni facili ai problemi complessi. Ed è nato così quel modello di sviluppo industriale basato “sull’innovazione senza ricerca”, un modello che troverebbe la sua conferma nella forza dei distretti, nella capacità di sfruttare le nicchie di mercato basate sulla qualità, nell’unione tra tecnologia e design.
La dinamicità di molte piccole e medie imprese offre argomenti a questa tesi, ma non può far dimenticare che l’Italia, come Paese e quindi come sistema economico, ha perso a più riprese i treni dell’innovazione. Si può ricordare come l’Italia sia stata per diversi periodi all’avanguardia in settori come l’informatica, la chimica, l’energia nucleare e poi, per mille ragioni diverse, non solo non abbia saputo mantenere vive, ma abbia praticamente abbandonato le grandi imprese che operavano in questo settore.
Guardando tuttavia in avanti, proprio in un momento come l’attuale appare importante che si torni a discutere della possibilità di rilanciare la ricerca. Innanzitutto perché bisogna pur non tralasciare alcuna strada per sostenere uno sviluppo economico di cui si è persa memoria per troppi anni. E poi perché appare indispensabile offrire ai giovani un terreno su cui competere e mettere a frutto le loro potenzialità.
In un piccolo, ma denso libro (“Il vantaggio dell’attaccante”, ed. Donzelli, pagg. 140, euro 18) Lucio Bianco e Paolo D’Anselmi offrono un’analisi puntuale ed efficace dello stato dell’arte di ricerca e innovazione in Italia, smentendo alcuni luoghi comuni, ma ribadendo la tesi della necessità e insieme dell’opportunità di un rinnovato impegno sia pubblico, sia per quanto possibile, privato.
È importante il fatto che non si parta da condizioni di inferiorità. “La ricerca pubblica italiana, vista complessivamente, – affermano Bianco e D’Anselmi – esce a testa alta dal confronto internazionale, sia in termini di qualità scientifica, sia in termini di produttività”. A questo dato positivo bisogna però aggiungere che “la capacità e la potenzialità della ricerca industriale, nonostante la buona produttività progettuale, si sono fortemente ridotte negli ultimi decenni, anche per la scomparsa di molti centri di ricerca assorbiti da grandi aziende multinazionali e spostati in altri paesi”. Nonostante questo, “l’efficienza del sistema di ricerca italiano è elevata” pur “nell’eseguità complessiva delle risorse umane e finanziarie investite in R&S”.
Ci sono quindi potenzialità di fondo, soprattutto sul fronte del capitale umano, ci sono ambiti in cui la ricerca può svilupparsi, ci sono modelli di intervento sostanzialmente costruttivi. C’è tuttavia il problema di base, il fatto che il sistema della ricerca è sottodimensionato rispetto al sistema economico nel suo complesso. Servono quindi nuovi finanziamenti, ma serve soprattutto, come osserva Giuseppe De Rita nell’introduzione, “riassestare le cigolanti giunture del sistema, restituendo al mondo scientifico la responsabilità di definire indirizzi e modalità del proprio lavoro”.
Non è quindi realistico pensare che l’Italia possa parlare di crescita continuando nell’illusione che sia possibile sfruttare ancora la logica dell’innovazione basata solo sulla creatività, l’intuizione, l’invenzione. Nel mondo super-tecnologico in cui ci troviamo la dinamica economica non può prescindere da due fattori essenziali: la multidisciplinarietà da una parte e la connessione a largo raggio dall’altra. Per questo è essenziale il ruolo dello Stato nella ricerca: sia direttamente, sia attraverso le molte società ancora collegate, dalla Finmeccanica (ora Leonardo) alle Ferrovie. Peccato che la politica parli d’altro.