Arrivano dati interessanti dall'indagine rapida di Confindustria, mentre resta irrisolta la vicenda relativa all'ex Ilva

Da tempo il mondo cammina lungo una strada sdrucciolevole e deve misurarsi con sfide in parte inedite (la rivoluzione tecnologica) ma soprattutto ritenute archiviate per sempre (la guerra delle armi e quella dei dazi, i vincoli che minacciano il commercio internazionale e le esportazioni, il fabbisogno energetico, gli effetti della crisi sanitaria sulle finanze pubbliche). Eppure l’economia internazionale – malgrado resti in attesa di eventi devastanti – riesce ancora a cavarsela.



I mercati finanziari, dopo le prime clamorose svalutazioni, hanno preso le misure alle intemerate di Donald Trump e riescono a cavarsela con chiusure positive. Le finanze pubbliche traballano, ma non è venuta meno la fiducia reciproca, tanto che l’Italia si ritrova con uno spread di 91 punti base rispetto ai Bund tedeschi. Oddio, la Germania non è più quella di una volta, ma è pur sempre un punto di riferimento.



Anche dal fronte delle imprese giungono segnali cauti ma non eccessivamente preoccupanti. L’indagine rapida di giugno sulla produzione industriale, rivolta alle grandi imprese associate a Confindustria, resa nota nelle ultime ore, evidenzia una sostanziale stabilità nelle aspettative rispetto alla rilevazione del mese precedente. La quota degli intervistati che crede che la produzione rimarrà stabile è pressoché invariata rispetto a maggio (67,6%), mentre diminuisce appena chi attende un aumento (21,4%) e cresce leggermente la parte di coloro che attendono una contrazione (11,0%).

In media nel secondo trimestre le aspettative sono lievemente più caute rispetto al primo quarto dell’anno: aumenta il numero di intervistati che crede che la produzione rimarrà costante (62,4%), compensato da una diminuzione degli ottimisti (23,8%), mentre resta quasi inalterata la quota di imprese che attende una diminuzione (13,8%).



Gli industriali intervistati nel mese di giugno considerano domanda e ordini come i principali punti di forza a sostegno della produzione. Il saldo aumenta in modo significativo rispetto a maggio, salendo al 6,1% dal precedente 4,5%. Le aspettative delle imprese sulla disponibilità di manodopera nei prossimi mesi – il dato è importante per molte ragioni – tornano a essere favorevoli (1,1% da -1,4%).

Poi alle luci si aggiungono le ombre. Il saldo relativo ai costi di produzione, già negativo nella rilevazione di maggio, è in diminuzione (-6,2% da -5,6%). I giudizi riguardo alle condizioni finanziarie restano in territorio negativo a giugno (-0,7% da -0,3%). Per quanto riguarda la disponibilità di materiali, il saldo delle risposte di giugno, leggermente negativo (-0,1%), mostra un miglioramento rispetto al valore registrato a maggio (-0,6%). Il giudizio degli industriali sulla disponibilità degli impianti registra a giugno un netto peggioramento, passando da 3,3% a -0,2%.

Sul fronte delle imprese vengono al pettine i fallimenti nella gestione della crisi (indotta) dell’ex Ilva di Taranto. Nell’incontro in videoconferenza con i sindacati dei metalmeccanici, il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha riferito della possibilità di chiusura di tutti gli altiforni entro la fine di luglio.

Il Ministro ha altresì reso noto il percorso d’interlocuzione con le Istituzioni locali in merito alla realizzazione dell’Autorizzazione integrata ambientale (AiA) e dell’Accordo di programma interistituzionale necessario affinché l’Autorizzazione trovi realizzazione. Una situazione, questa, che, secondo quanto riferito dai sindacati, dipende anche dall’attesa sentenza del Tribunale di Milano.

Sembra di assistere a un film giallo, quando il detective che conduce le indagini si accorge che la vittima non si è suicidata ma è stata assassinata. “Che potesse finire così – ha commentato Carlo Calenda già ministro delle Sviluppo economico che gestì a suo tempo la vertenza – credo di averlo detto esattamente il giorno in cui il Conte II ha fatto saltare quello che era un accordo irripetibile, blindato, con il più grande produttore d’acciaio del mondo, che ha poi preferito investire in Francia invece che a Taranto”.

Ma anche l’attuale governo ha fatto la sua parte nell’assecondare prospettive di carattere produttivo (l’acciaio pulito, ecc.) di là da venire. La minaccia che incombe è quella di mettere in regime di cassa integrazione ad hoc migliaia di lavoratori. Una proposta interessante è venuta in queste ore da Antonio Gozzi, Presidente di Federacciai. Per Gozzi, la questione dell’Ilva riguarda la sicurezza strategica nazionale: “Non possiamo aumentare – ha dichiarato – le spese per la Difesa e allo stesso tempo acquistare le lamiere per Fincantieri chissà dove. Uno stabilimento come Taranto va trattato come un asset militare”. Insomma, la suggestione potrebbe essere la soluzione: salvare l’Ilva impiegando i soldi destinati alla Difesa.

In questo senso, si starebbe valutando l’impatto del programma dell’Ue, ReArm Europe, e l’annunciato aumento delle spese militari in ambito Nato in una possibilità di questo genere. Solo ipotesi, comunque, per realizzare le quali l’Italia dovrebbe essere un Paese in cui 2+2 fa 4. E cioè: se dobbiamo aumentare la spesa in armamenti, abbiamo bisogno dell’acciaio. Non servono le cozze pelose.

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