Per l’OCSE nel 2060 l’Italia avrà 12 milioni di lavoratori in meno, con la peggior percentuale delle economie avanzate. Ecco come rimediare
Che il calo demografico debba incidere, a lungo andare, sulla nostra forza lavoro è un concetto più volte ribadito negli ultimi anni. Sentirsi dire, però, che nel 2060 ci saranno 12 milioni di lavoratori in meno fa un certo effetto.
A rivelarlo è l’Employment Outlook 2025 presentato dall’OCSE al CNEL, che prevede una flessione del 34% nel nostro Paese, molto superiore alla media dell’8% degli altri Paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. In attesa di risollevare il nostro tasso di natalità con politiche adeguate, ci sono però degli aspetti su cui si può lavorare per migliorare la situazione.
Bisogna agire, spiega Giancarlo Blangiardo, già presidente dell’Istat, docente emerito di demografia all’Università di Milano-Bicocca, su donne, giovani, anziani e migranti. Utilizzando giustamente l’intelligenza artificiale.
L’OCSE dice che nel 2060 avremo 12 milioni in meno di lavoratori a causa del calo demografico. La situazione sta precipitando o siamo di fronte alla proiezione di un dato già assodato?
È semplicemente la proiezione delle tendenze passate, valutandole in prospettiva futura. Se una volta nasceva un milione di bambini che, a distanza di 20-25 anni, diventavano un milione di potenziali lavoratori, ora ne nascono, come è successo l’anno scorso, 370 mila. Dimezzare i flussi generazionali inevitabilmente determina una diminuzione dei flussi d’ingresso nel mercato del lavoro a distanza di anni. Una situazione non occasionale, ma che procede con una certa regolarità: è evidente che così la fascia lavorativa più giovane sarà inferiore rispetto a oggi.
Davanti a questo scenario, cosa bisogna fare?
Dobbiamo accettare il cambiamento quantitativo e capire come lavorare in termini qualitativi per accrescere la partecipazione al mercato del lavoro. In un Paese come l’Italia, dove la partecipazione a questo mercato, sul fronte femminile, è molto bassa, c’è una leva su cui agire. Attraverso la conciliazione famiglia-lavoro, gli aiuti alla maternità e altri provvedimenti possiamo cominciare a creare le condizioni, far sì che anche le donne in Italia possano quantomeno raggiungere i livelli di partecipazione degli altri Paesi europei.
È il gender gap (una differenza del 17% in termini di occupazione fra gli uomini e le donne) che relega l’Italia tra i Paesi che subiranno maggiormente gli effetti del calo delle nascite tra le economie avanzate?
Come popolazioni in età lavorativa siamo messi male perché in Europa, o quantomeno nei Paesi più sviluppati, siamo tra coloro che da più tempo hanno a che fare con la caduta della natalità. Ma abbiamo i tassi più bassi di partecipazione femminile, per una mancanza di questa componente a rendersi disponibile a operare sul mercato.
Tra le indicazioni dell’OCSE per uscire da questa situazione c’è quella di valorizzare il capitale giovanile. Come bisogna agire in questo senso?
Qui c’è tutto il discorso del trattenimento e della valorizzazione dei giovani, che sono strettamente legati. I 370 mila nati dell’anno scorso, quando sarà il momento di entrare nel mondo del lavoro, saranno pochi; se poi ce li facciamo anche sfuggire perché se ne vanno in giro per l’Europa, sono guai. Il tema è anche quello della formazione, che deve essere orientata nella direzione giusta.
Chiaro, i giovani vogliono studiare quello che piace loro, però dobbiamo creare anche le condizioni perché siano informati delle opportunità che si aprono in tutti i campi. Magari trovano qualcosa che corrisponde ancora di più ai loro desideri, facendo capire che ci sono percorsi anche faticosi ma che, in prospettiva, sono vantaggiosi. Dovremmo recuperare, da parte della componente più adulta, la capacità di informare e orientare, senza forzare, mostrando dove portano certi percorsi di formazione.
Perché è così importante puntare su questo approccio?
Io ho fatto lo statistico, ma quando frequentavo ragioneria non sapevo neanche cosa fosse la statistica. Tra le cose che potevo scegliere a suo tempo c’erano economia e commercio, la scuola di statistica o quella navale di Napoli. Ho scelto economia e commercio e mi è andata anche bene, però non ho mai preso in considerazione l’idea di fare la scuola di statistica, conseguendo poi la laurea nella stessa materia: non sapevo neanche cosa fosse.
Gli ultimi due aspetti da valorizzare della nostra forza lavoro, sempre secondo le indicazioni OCSE, sono gli anziani che sono ancora in condizione di svolgere un’attività e i migranti. Qui come si può agire?
Quei famosi 12 milioni di lavoratori che mancheranno si possono compensare anche ricorrendo agli anziani attivi. In questo campo occorre incentivare chi si sente di fare certe scelte lavorative senza penalizzarli in riferimento alla pensione, alle tasse o ad altro. Il discorso di immigrazione è analogo, ma dobbiamo aprire a un’immigrazione che sia anche funzionale al nostro mercato del lavoro. L’idea del “liberi tutti” è bella dal punto di vista etico e ideale, però, in termini economici, quello che ci serve è una manodopera che sia disponibile a sviluppare un progetto che porta anche alla cittadinanza, ma finalizzato ai bisogni del Paese di destinazione.
Bisogna puntare sui progetti che formano all’estero il personale che poi deve venire in Italia?
Quando ancora ero all’ISTAT, ho iniziato a sviluppare con Unioncamere degli accordi che puntavano proprio ad avviare una sorta di pre-integrazione nei luoghi di partenza per le persone destinate a venire a lavorare in Italia, attivando le istituzioni locali, il volontariato.
L’idea era di formare alcune categorie di lavoratori che poi, una volta qui, potessero accedere a una seconda fase della formazione, organizzata dall’azienda nella quale lavoreranno, che così ha a che fare con persone che sanno già l’italiano e hanno un’infarinatura del mestiere che svolgeranno. Erano già stati avviati degli esperimenti con America Latina e Tunisia. Così si crea un canale di mobilità, un flusso regolare, senza rischi.
L’intelligenza artificiale può aiutare a ridurre il peso della mancanza di manodopera?
Può aumentare certamente la produttività: è vero che ci sono meno lavoratori, tuttavia in certi campi, tutto sommato, ne servono anche meno. Quella dell’IA, però, non deve essere vista come soluzione magica. È chiaro che offre dei vantaggi, come l’automazione, ma non è sufficiente da sola.
(Paolo Rossetti)
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